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20 anni dal disastro Space Shuttle Columbia. In memoria delle esplorazioni spaziali e verso nuovi confini, sempre

Roberto Campagnola : 1 Marzo 2023 07:19

Sono passati 20 anni dalla mattina (ore 09:00:58) del 1º febbraio 2003, quando la navicella Space Shuttle Columbia si disintegrò nei cieli del Texas durante la fase di rientro nell’atmosfera terrestre.

Anche in un’era di forte sviluppo tecnologico, le missioni spaziali mantengono sempre un enorme fascino. Tuttavia il grande pubblico sembra essersi quasi “abituato” ai lanci spaziali: le notizie di aggiornamenti nel settore space economy o di ricerca fondamentale sono costanti, la competizione economica è serrata, le immagini da sonde o telescopi spaziali hanno enorme diffusione. Elon Musk è riuscito a “creare spettacolo” anche tramite i suoi test di Starship, il razzo concepito per andare su Marte. 

E’ fondamentale però ribadire che, nonostante standard di sicurezza elevatissimi, l’esplorazione spaziale con equipaggio rimane una attività pericolosa. Con questi articoli racconteremo storie sicuramente già note ma è giusto rendere omaggio e ricordare le persone che sono morte nel tentativo di espandere i confini della conoscenza,  praticando una delle attività che distingue il genere umano fin dai tempi più remoti : l’esplorazione di mondi lontani.

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Tra la fine di gennaio e i primi giorni di febbraio ricorrono gli anniversari di due gravi incidenti che hanno coinvolto gli Space Shuttle, determinando prima un arresto del programma  e poi la definitiva chiusura.

CHALLENGER, UNA PROFESSORESSA TRA LE STELLE.

Nel 1984 l’amministrazione Reagan lanciò il programma “Teacher in Space” con lo scopo di  attirare e stimolare i giovani americani verso lo studio delle discipline scientifiche. Il programma prevedeva di assegnare un insegnante di scuola superiore all’equipaggio di uno Shuttle e dare così la possibilità di tenere delle lezioni di scienze direttamente in orbita, una volta ottenuta la qualifica di “Specialista di missione”. 

Si candidarono circa 11000 insegnanti, e risultò vincitrice Christa McAuliffe, insegnante di Concord, New Hampshire. Al termine di una lunga fase di addestramento e preparazione al volo spaziale, la Professoressa McAuliffe fu assegnata alla missione STS-51L a bordo del Challenger, con lancio previsto per il 22 gennaio 1986. Dopo una serie di ritardi dovuti ad altre missioni e al cattivo tempo nei siti di atterraggio di emergenza per gli Shuttle, il lancio fu fissato infine per il 28 gennaio 1986.

L’ESPLOSIONE

Dopo un ulteriore ritardo di circa due ore, il decollo del Challenger avvenne alle 11.38 ora della Florida da Cape Canaveral. Il lancio proseguì nominale per i primi 73 secondi, quando l’orbiter improvvisamente si disintegrò. In quel momento il Challenger viaggiava ad una velocità di circa Mach 2 a 14000 metri di quota.

L’esplosione fu causata dal cedimento di un o-ring dei razzi laterali (SRB – Solid Rocket Booster). I giorni precedenti il lancio, infatti, furono caratterizzati da un meteo molto freddo per le coste della Florida; esposto alle intemperie, l’ o-ring perse le sue proprietà elastiche e non sigillò nella maniera corretta le giunzioni degli SRB determinando una fuoriuscita di fiamme e gas ad alta pressione che riuscirono a bucare il serbatoio esterno contenente idrogeno e ossigeno liquidi, determinando il cedimento strutturale e il disastro. Tutti i 7 componenti dell’equipaggio persero la vita.

Esplosione dello Space Shuttle Challenger dopo il decollo

Dall’inchiesta successiva, a cui partecipò anche il premio Nobel Richard Feynman, si accertò che il disastro fu causato da un difetto di progettazione degli o-ring e da una cattiva programmazione della missione: se infatti il Challenger fosse decollato in condizioni meteo ordinarie per la Florida, cioè un temperatura ambientale superiore ai 10°C, probabilmente le guarnizioni non avrebbero perso la loro elasticità garantendo la salvezza dell’equipaggio. 

Il programma “Teacher in Space” fu chiuso e i lanci  sospesi fino alla missione dello Space Shuttle Discovery il 29 settembre 1988.

Equipaggio del STS-51-L. Prima fila da sinistra a destra: Michael John Smith, Dick Scobee (C),  Ronald McNair. Seconda fila da sinistra a destra: Ellison Onizuka, Christa McAuliffe, Gregory Jarvis, Judith Resnik

Il Columbia, 1° febbraio 2003

Il secondo incidente del programma Space Shuttle  avvenne il 1° febbraio 2003. Sopra i cieli del Texas, il Columbia (il primo Shuttle a volare nella missione STS-1) si disintegrò durante il rientro in atmosfera; anche in questo caso non ci furono sopravvissuti tra i 7 membri dell’equipaggio. 

Dall’analisi delle immagini riprese durante le fasi iniziali della missione si accertò che circa 80 secondi dopo il lancio, un pezzo di schiuma isolante si staccò dal serbatoio esterno e colpì la parte sottostante dell’ala sinistra, causando un buco e la rottura di parte dello scudo termico. Episodi simili erano accaduti anche durante missioni precedenti e si decise di non eseguire accertamenti o ispezioni visive mentre il Columbia era in orbita.

Il 1 febbraio alle ore 8.10 ora locale della Florida iniziarono le procedure di rientro con la cosiddetta deorbit burn, accensione di rientro, la procedura con cui lo Shuttle “frena” e inizia il rientro nell’atmosfera terrestre. 

Alle 8.44 con il rientro in atmosfera del Columbia, a causa del buco formatosi durante il decollo iniziò la sequenza di eventi che portò alla disintegrazione del velivolo e alla morte dei 7 astronauti. L’orbiter iniziò una manovra di imbardata che non fu notata dall’equipaggio o dai controllori di volo grazie al sistema di correzione automatica dell’assetto di volo. Quando si trovò in corrispondenza della California, il Columbia iniziò a perdere pezzi e detriti. 5 minuti dopo il rientro in atmosfera i controllori di missione a Houston  notarono i primi messaggi di letture anomale dai sensori posto lungi lo Shuttle.

Il Columbia continuò a perdere detriti a causa dell’anomalo attrito aerodinamico. Circa 10 minuti dopo il rientro in atmosfera fu registrata l’ultima comunicazione con l’equipaggio: i controllori di volo comunicarono una lettura anomala dei sensori della pressione degli pneumatici a cui seguì la conferma del comandante Husband. Poi solo silenzio.

Alle 9.00.18 il Columbia iniziò a disintegrarsi totalmente e tutta la telemetria di bordo si interruppe.

I residenti del Texas videro nel cielo i detriti e la scia di fuoco indice della distruzione dell’orbiter. Alle 9.12 il direttore di volo attuò le procedure di emergenza e ordinò di “chiudere le porte” (“lock the doors” ): tutti i controllori di missione devono smettere la condivisione delle informazioni e analizzare solo i dati del proprio settore, per evitare “contaminazioni” tra i dati, false impressioni nell’interpretazione dei dati stessi e altri bias cognitivi.

Detriti dello Space Shuttle Columbia sopra i cieli del Texas

L’inchiesta

Dalle indagini si accerterà che un pezzo di schiuma isolante grande circa 40 cm x 40 cm, durante le fasi del decollo impattò contro il bordo d’attacco dell’ala sinistra, determinando una rottura dello scudo termico. Durante la fase di rientro, con le temperature attorno a 1500 °C e nessuna protezione, lo Shuttle Columbia si disintegrò in volo, uccidendo tutti i membri dell’equipaggio. Il programma Shuttle fu sospeso per apportare modifiche progettuali al serbatoio esterno, ai sensori lungo le ali e alle procedure di emergenza.

I voli ripresero il 26 luglio 2005, con la missione STS-114 Discovery. A partire da questa missione e per i successivi voli divenne routine la cosiddetta “Rendezvous pitch maneuver”: prima dell’attracco alla International Space Station – ISS, lo Shuttle eseguiva una rotazione completa su se stesso esponendo lo scudo termico alla vista degli astronauti sulla ISS per controllare che non avesse subito danni durante il lancio.

Tuttavia, durante le ispezioni in volo e tramite EVA (Extravehicular VEhicular Activity), furono rilevati problemi alle mattonelle dello scudo termico del Discovery e fu deciso di sospendere nuovamente le attività degli Shuttle. Le missioni ripresero il 4 luglio del 2006, fino alla definitiva chiusura del programma con l’ultimo volo dell’Atlantis, partito l’8 luglio 2011.

L’equipaggio della missione STS-107. Da sinistra: David Brown, Rick Husband (C), Laurel Clark, Kalpana Chawla, MIchael Anderson, William McCool, Ilan Ramon.

Verso nuovi confini, sempre

L’esplorazione spaziale è pericolosa; vi è quasi un conflitto tra la bellezza delle immagini che una missione spaziale ci regala, l’idea che la mente umana possa attuare missioni così complesse e la pericolosità intrinseca dei viaggi spaziali. 

Sono tuttavia attività umane di impareggiabile importanza con innumerevoli campi di applicazione (approfondiremo qui su RedHotCyber le ricadute scientifiche e tecnologiche delle missioni spaziali), ed è quindi necessario tributare il giusto onore a chi sceglie di dedicarsi con coraggio, determinazione, e preparazione a in questo tipo di imprese e ricordare chi ha perso la vita per il bene e il progresso della conoscenza.

Photo credit: NASA Human Space Flight Gallery,

https://www.flickr.com/photos/nasa2explore/10697912315/in/album-72157630719371642/
https://web.archive.org/web/20011110023020/http://www.spaceflight.nasa.gov/gallery/images/shuttle/sts-107/html/sts107-s-002.html

Roberto Campagnola
Laureato in fisica delle particelle, attualmente assegnista di ricerca presso i Laboratori Nazionali di Frascati-INFN e il CERN, si occupa dell’upgrade dell’esperimento CMS – Compact Muon Solenoid per il Large Hadron Collider.

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