Daniela Farina : 24 Luglio 2023 08:04
Nessuno negli anni sessanta avrebbe potuto immaginare come sarebbe stato il mondo solo cinquant’anni dopo. Una nuova pagina della storia umana è iniziata e le nuove generazioni non sapranno mai come era una realtà, esclusivamente, analogica, offline e predigitale.
Siamo l’ultima generazione che l’ha vissuta. Un numero sempre più crescente di persone vive onlife. Questo ha influito sul modo in cui concepiamo e comprendiamo le nostre realtà. Il prezzo di un posto speciale nella storia lo si paga con incertezze che destano preoccupazioni.
Le vere domande che possiamo porci sono come, perché e con quali conseguenze il digitale, come fenomeno globale, sta profondamente trasformando la realtà, soprattutto in relazione all’intelligenza artificiale. Scopriamolo insieme dal punto di vista etico e psicologico.
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Il digitale taglia e incolla le nostre realtà sia digitalmente che ontologicamente. Separa e riunisce certi aspetti del mondo, ossia gli atomi delle nostre esperienze e culture. Siamo la prima generazione per la quale “dove sei ?” non è soltanto una domanda retorica. “Modifica il letto del fiume” per usare la metafora del filosofo Ludwig Wittgenstein.
In un mondo digitale, ci si può trovare fisicamente in un posto e presente, interattivamente, in un altro. Cosa che tutte le altre generazioni hanno sperimentato come due lati inseparabili della stessa situazione.
Il digitale quindi non è solo qualcosa che potenzia o aumenta la realtà ma qualcosa che la trasforma radicalmente, perché crea nuovi ambienti che abitiamo e nuove forme di agire con cui interagiamo. In questo senso, ad esempio, le nanotecnologie e le biotecnologie stanno re ontologizzando il nostro mondo e non soltanto re ingegnerizzandolo.
Nel 300 nel testo intitolato La Meccanica, attribuito inizialmente ad Aristotele, si dice che “è macchina tutto ciò che ci permette di produrre un effetto oltre le nostre capacità naturali ed a nostro beneficio.”
Nel 1887, il filosofo Friedich Nietzsche per provocare la nostra coscienza ci mise in guardia sulla “seduzione del linguaggio a cui soggiace anche tutta la nostra scienza, malgrado tutta la sua freddezza o la sua liberazione dal sentimento.”
Questo ci ricorda che davanti a ogni grande innovazione tecnica c’è sempre stato chi ne ha paventato le conseguenze negative.
Ai primi del novecento, il filosofo Martin Heidegger, parlava di azione, intuendo che l’essenza della tecnica non riguardava gli strumenti o i processi tecnologici, bensì un modo di conoscere il mondo e mediare pratiche collaborative. In quest’ottica ciò che chiamiamo macchina assume un senso più ampio.
Nella lingua greca poi ci sono 3 parole collegate tra loro che ci chiariscono un altro concetto e sono: praxis (prassi), telos (scopo) e techne (arte).
Comuni alle prime due parole c’è l’idea di passare “attraverso” per superare le difficoltà. Nel pensare a telos, invece, pensiamo a Platone e Aristotele. Lo usavano per indicare circolarità a cui tende qualsiasi azione, ben indirizzata e condotta, con perizia e consapevolezza.
Da techne da cui derivano le nostre parole come tecnica e tecnologia deriva il fare, inteso come senso di azione competente che produce qualcosa, con metodo. Queste 3 parole si tengono per mano e si scambiano senso e funzione.
Mancando anche solo uno di essi nel puzzle che vogliamo costruire, gli altri potrebbero perdere capacità ed efficacia.
Sulla governance delle tecnologie digitali in generale e dell’IA in particolare c’è molto da dire. Dobbiamo anticipare e guidare lo sviluppo etico dell’innovazione. Il modo migliore per prendere il treno tecnologico non è inseguirlo, ma trovarsi già alla prossima stazione.
Le tecnologie digitali ed in particolare l’intelligenza artificiale offrono molte opportunità, alle quali però sono associati anche sfide e potenziali rischi. Perciò, occorre risolvere la tensione tra assimilare i benefici e mitigare i potenziali danni.
E’ in questo contesto che diventa manifesto un approccio etico. L’adozione di un approccio etico conferisce quello che può essere definito un duplice vantaggio. Da un lato può fornire una strategia di opportunità, consentendo agli attori di sfruttare il valore sociale delle tecnologie digitali.
Dall’altro fornisce la soluzione per la gestione del rischio in quanto consente alle organizzazioni di anticipare ed evitare errori costosi. (scandalo Cambridge Analytica)
L’etica digitale non può essere “una civetta di Minerva che si alza in volo solo quando le ombre della notte si stanno addensando” per usare la metafora del filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
In altre parole, l’etica deve informare le strategie per lo sviluppo e l’uso delle tecnologie digitali quando cambiare rotta. In particolare, in termini di risorse e opportunità mancate. Non dovremmo mai perdere di vista l’obiettivo benefico a cui è volta ogni pratica, mediata tecnologicamente.
Dovremmo chiederci “cui prodest ? “ A beneficio di chi è concepita e realizzata? Il cardinale Carlo Maria Martini, nei suoi dialoghi intitolati :Le cattedre dei non credenti, affermava:
“Sono minacciose tutte le tecnologie del virtuale? L’intero cammino verso l’intelligenza artificiale finirà per svalutare il valore della persona, riducendola a pura meccanica? O invece saranno i valori dell’uomo ad indurre la scienza ad aprire nuovi fronti grazie alle conquiste tecnologiche?”
Abbracciamo questo scenario molto positivo e lasciamo che l’intelligenza umana rimanga sempre padrona dei processi. Diventando più criticamente consapevoli del potere dell’intelligenza artificiale e delle applicazioni smart potremmo essere in grado, psicologicamente, di evitare le peggiori forme di distorsione (rifiuto) o almeno essere coscientemente tolleranti nei loro confronti (accettazione)
Un approccio “ethical in design” cioè etico relativamente alle pratiche di progettazione potrebbe essere, quindi, decisivo. Come dicevamo sopra “cui prodest?” Qual è il vantaggio che ne può derivare per la maggior parte delle persone?.
Per concludere, le domande che bisogna farsi sono quelle a cui ho accennato all’inizio, ossia :
In questa fase storica è difficile prevedere se il bilancio netto dell’impiego di tecnologie sarà positivo o negativo. E’ impossibile stabilire la definizione di successo o fallimento. Il più grande pericolo potrebbe essere quello di produrre un effetto di depotenzionamento delle capacità umane.
Si dice che “il muscolo che non si usa si atrofizza”. Le tecnologie AI sono macchine per l’aumento delle nostre capacità intellettuali: memoria, associazione, riconoscimento, decisione, giudizio. L’essere umano è “un avaro cognitivo” (Fiske, Taylor 2009) e quindi le macchine AI possono acquisire nel tempo una così crescente autorevolezza presso chi vi si affida, in quanto gli facilitano la vita.
Non dobbiamo andare nella direzione di perdita di competenze e abilità (deskilling). Per farlo occorre investire in iniziative che promuovano e rendano più popolari i principi di responsabilità e consapevolezza delle visioni alternative del nostro futuro.
Plutarco, nel trattato Moralia che colpisce per la lungimiranza riguardo alle conseguenze negative di certe innovazioni in campo militare, fa dire al re di Sparta, Archidamo III : “ Per Eracle, a essere demolita è la virtù dell’uomo!” vedendo il proiettile sparato da una catapulta che era stata portata per la prima volta dalla Sicilia.
Parole di monito che sembrano attuali anche oggi, quando si parla di memoria transattiva e di effetti disabilitanti delle nuove tecnologie ed addirittura di demenza digitale. Le tecnologie è noto che non sono né buone né cattive ma come ci ricorda lo storico Melvin Kranzberg neppure neutrali.
Ogni tecnologia ci offre e dispone di possibili scenari futuri che derivano tanto dal suo uso quanto dal suo abuso. Sta solo a noi guidare il loro sviluppo nel nostro ecosistema.
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