Donne in Cybersecurity: da Outsider a Cornerstone
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Donne in Cybersecurity: da Outsider a Cornerstone

Donne in Cybersecurity: da Outsider a Cornerstone

Ada Spinelli : 15 Dicembre 2025 07:57

La scena è sempre quella: monitor accesi, dashboard piene di alert, log che scorrono troppo in fretta, un cliente in ansia dall’altra parte della call. Ti siedi, ti guardi intorno e ti rendi conto che, ancora una volta, sei l’unica donna nella stanza. Quando dico che lavoro come Cyber Threat Intelligence Analyst, la reazione è spesso un misto tra stupore e curiosità:

“Ma quindi è come essere un hacker?”, “Non è un lavoro un po’ troppo tecnico?”, “Non è spaventoso questo mondo?”.

Siamo nel 2025 e certe domande fanno quasi sorridere, ma raccontano bene la realtà: la cybersecurity è ancora percepita come un territorio maschile, dove le donne vengono viste come eccezioni statistiche, anomalie. E i numeri, purtroppo, non smentiscono del tutto questa sensazione.


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A livello globale, le donne rappresentano ancora una netta minoranza nella forza lavoro della cybersecurity e non sono rari i team in cui non è presente nemmeno una professionista. Proprio per colmare questo divario, Red Hot Cyber ha dato vita a RHC Cyber Angels, un gruppo interamente al femminile nato con l’obiettivo di rafforzare le connessioni tra le donne nel settore cyber e promuovere una cultura più inclusiva.

Il caso Italia: Terreno fragile ma fertile

Nel 2025, il settore della cybersecurity è in crescita ma sotto pressione a causa dell’aumento degli attacchi e dell’allargamento della superficie d’attacco. Nonostante la crescita del numero di professionisti, la domanda supera l’offerta, con un deficit di quasi cinque milioni di ruoli. La presenza femminile nel settore è ancora minoritaria, con un divario retributivo rispetto agli uomini. Non è solo una questione di numeri: è una questione di opportunità mancate e di inefficienza strutturale. Si sta combattendo una guerra digitale usando metà dell’esercito disponibile.

L’Italia, storicamente indietro per la presenza femminile nel digitale, mostra un dato sorprendente: è tra i Paesi con la più alta percentuale di donne nella cybersecurity, quasi un terzo dei professionisti del settore, un aumento significativo rispetto al passato.

Cosa significa?

Significa che l’Italia sta recuperando terreno, forse proprio perché partiva da lontano. Le donne che sono riuscite a entrare in questo mondo hanno spesso dovuto costruirsi il percorso passo dopo passo navigando controcorrente, inventandosi strade alternative. Non è stato un cambiamento spontaneo: è stato spinto da scelte individuali coraggiose e da alcune iniziative collettive.

Allo stesso tempo, se allarghiamo lo sguardo all’intero digitale, il quadro resta fragile. In Italia meno della metà delle persone tra i 16 e i 74 anni ha competenze digitali almeno di base, e siamo sotto la media europea. Questo significa che il bacino di potenziali talenti è già ristretto in partenza, e dentro a questo bacino le donne sono quelle che più frequentemente vengono orientate verso altri percorsi, spesso lontani dall’IT e dalla sicurezza.

In pratica: da un lato emergono segnali positivi, dall’altro restano barriere culturali, scolastiche e sociali che pesano in modo particolare sulle ragazze.

Il lato invisibile del Gender Gap

Quando si parla di discriminazione di genere, si tende a pensare agli episodi estremi: commenti apertamente misogini, esclusioni deliberate, casi di molestie. Esistono, purtroppo, anche nel nostro settore, ma non sono l’unica forma di disparità. Quello che logora, spesso, sono le silenziose ferite quotidiane.

La prima è lo stereotipo: se si è una donna in un contesto tecnico, bisogna costantemente dimostrare qualcosa. L’obiettivo marcato da un giudizio implicito è: controllare se la competenza è reale. Un collega uomo, con lo stesso livello di esperienza, si prende molto più spesso un beneficio del dubbio: se sbaglia, “capita”. Se sbaglia la collega donna, diventa una conferma del pregiudizio.

La seconda è la sottovalutazione wordless: viene presentata un’analisi dettagliata su un incidente, con collegamenti di IoCs, tecniche di attacco, impatti di business, raccomandazioni. Nessuno obietta. Poi, più tardi, un collega ripete un concetto che era stato già detto precedentemente, con parole leggermente diverse, e all’improvviso quella stessa cosa viene percepita come brillante. Non succede sempre, ma abbastanza spesso da non poter parlare solo di coincidenze.

La terza è la messa in discussione del proprio merito. Quando una donna viene invitata come speaker a un convegno, quando le viene proposto un ruolo visibile o una promozione, si chiede se sia stata scelta per le proprie competenze o perché cercavano una donna da mettere in foto per dimostrare inclusività. Il confine tra valorizzazione reale e tokenismo è sottile. E a volte è la donna a interiorizzare questo dubbio, anche quando non ha motivo di esistere.

Poi ci sono le disparità meno visibili ma altrettanto concrete: quelle di stipendio, di accesso a determinati progetti, di possibilità di crescita verticale. In diversi casi, a parità di ruolo e responsabilità, le donne guadagnano meno dei colleghi uomini.

L’Unione Europea ha riconosciuto il problema a livello sistemico e ha varato una direttiva sulla trasparenza retributiva che gli Stati membri, inclusa l’Italia, dovranno attuare entro il 2026.

Non sarà la bacchetta magica che risolve tutto, ma è un passo.

E ogni passo verso la trasparenza, in un settore ancora poco regolato come la cyber, conta moltissimo.

Un Paese poco digitale che non può permettersi di scartare talenti

C’è un altro pezzo di realtà che non possiamo ignorare: in Italia, le competenze digitali nella popolazione sono ancora basse.

Meno della metà delle persone ha competenze di base, e la distanza dalla media europea è significativa. Questo si traduce in un ecosistema in cui: aziende faticano a trovare profili tecnici, molte persone non si sentono all’altezza di intraprendere percorsi IT, la cultura digitale è percepita come per pochi.

Se unito a decenni di stereotipi di genere (“le ragazze sono più portate per il linguistico, per l’umanistico, per il sociale”), il risultato è un imbuto strettissimo: pochi studenti scelgono l’ambito informatico, e tra questi le donne sono ancora una minoranza.

In un contesto così fragile, ogni donna che decide di entrare in cybersecurity compie un atto di rottura rispetto alle aspettative.

Non si parla solo di carriera individuale, ma di impatto collettivo: ogni percorso aperto da qualcuna rende il terreno un po’ più calpestabile per chi verrà dopo.

E, soprattutto, il settore non può permettersi di continuare a pescare sempre dallo stesso bacino ristretto di profili maschili, spesso con lo stesso tipo di background. È inefficiente, rischioso e miope.

Non si tratta solo di ‘’quote rosa’’

A volte il discorso viene semplificato: “Bisogna avere più donne per arrivare al 50 e 50”. Ma il punto non è solo l’estetica delle percentuali. La cybersecurity moderna è complessa. Richiede capacità di vedere connessioni tra tecnologia, persone, processi, contesto geopolitico, dinamiche economiche. Non è più solo “chiudere porte e configurare firewall”, ma gestire rischio, comunicare crisi, costruire strategie di lungo periodo.

In questo tipo di scenario, la diversità di prospettive non è un accessorio: è una forma di ridondanza intelligente. Un team composto da persone tutte simili tra loro tenderà a vedere gli stessi problemi, sempre dalla medesima prospettiva e ad ignorarne altri.

Un team eterogeneo per genere, età, background di studi, esperienze di vita ha molte più possibilità di cogliere segnali deboli, leggere i comportamenti umani legati alle minacce, intuire le implicazioni di una scelta tecnica sulle persone che la subiranno.

Le donne, in tutto questo, non sono “migliori per definizione”, ma portano spesso competenze e sensibilità preziose: attenzione alla comunicazione con il business, capacità di gestione relazionale dei conflitti, sensibilità rispetto alle implicazioni umane delle crisi di sicurezza, approccio sistemico che va oltre il singolo tool. Più donne in cybersecurity significa più modi diversi di difendere, non solo più statistiche da esibire nei report aziendali.

Le community che investono nel cambiamento

Negli ultimi anni, diverse community hanno supportato la presenza femminile nella cybersecurity. Tra queste, Cyber Angels, all’interno di Red Hot Cyber, offre uno spazio informale per condividere esperienze e creare una rete di supporto.

A livello europeo, Women4Cyber Foundation promuove la partecipazione femminile con programmi di mentorship e networking, mentre Women4Cyber Italia organizza eventi e percorsi di mentoring.

Il Laboratorio Nazionale di Cybersecurity del CINI coordina progetti formativi come CyberChallenge.IT, rivolti anche alle studentesse.

A livello globale, WiCyS offre programmi simili.

Queste community offrono opportunità concrete e, soprattutto, il messaggio che non si è mai sole in questo percorso. Il valore di queste community non è solo nelle opportunità concrete (borse di studio, workshop, contatti lavorativi), ma nel messaggio implicito che portano: non si è mai da sole. Qualcun’altra ha già affrontato quegli stessi dubbi, le stesse paure, le stesse frustrazioni. E ce l’ha fatta!

Essere una donna in Cyber Threat Intelligence

La Cyber Threat Intelligence è una di quelle aree che stanno a metà tra il mondo iper-tecnico e quello strategico. È un lavoro che richiede di entrare nella testa degli attaccanti, studiare campagne, analizzare infrastrutture, correlare indicatori tecnici e contesto geopolitico, per poi tradurre tutto questo in informazioni comprensibili per il business.

Essere una donna in questo ambito, significa vivere in modo amplificato questa dimensione “di confine”.

Da una parte ci sono i colleghi che amano parlare di TTP, di log, di sandbox, di memoria volatile. Dall’altra i manager, i board, i clienti che chiedono: “Che cosa significa tutto questo per noi? Quanto rischio corriamo? Cosa dovremmo fare domani?”.

Stare nel mezzo vuol dire allenare sia il linguaggio tecnico che quello umano.

Vuol dire imparare a cambiare registro a seconda dell’interlocutore, senza perdere precisione.

Vuol dire, soprattutto, sviluppare una grande capacità di ascolto: dell’organizzazione che si difende, del contesto in cui si opera, delle persone che si hanno intorno.

Il fatto di essere donna, in un ruolo come questo, significa talvolta essere vista istintivamente come “la persona che sa comunicare bene” prima che come “quella che sa analizzare un’infrastruttura di C2”. All’inizio può dare fastidio, perché sembra ridurre una competenza a una soft skill. Con il tempo, però, se si affianca alla capacità comunicativa una solidissima base tecnica, quella percezione si trasforma: si arriva ad essere la persona che riesce a fare da ponte tra due mondi che spesso non si parlano.

Non è sempre facile. Ci saranno momenti in cui ci si potrebbe sentire sottovalutate, situazioni in cui il proprio contributo verrà dato per scontato, ruoli in cui alzare la voce (anche metaforicamente) per non farsi schiacciare ai margini, potrebbe diventare una necessità.

Ma ci saranno anche momenti in cui prenderà il sopravvento la consapevolezza che il proprio sguardo ha fatto la differenza: un rischio che nessuno aveva visto, un segnale debole riconosciuto, un consiglio strategico che ha evitato a un’azienda un impatto serio. E quei momenti ripagano moltissimo.

Quando la paura di iniziare è il primo ostacolo

Ciò che va tenuto a mente è che nessuno nasce tecnico.

Chi oggi sembra muoversi con naturalezza tra protocolli, exploit e log, un tempo non aveva idea di che cosa fosse un pacchetto TCP o un SIEM.

Tutto si impara, non c’è un gene segreto della cybersecurity.

Non esiste soprattutto una “età giusta” o un percorso “perfetto”. Ci sono persone che sono arrivate alla sicurezza passando da lingue, psicologia, giurisprudenza, relazioni internazionali. Hanno portato con sé competenze fondamentali per domini come governance, risk management, privacy, awareness, social engineering, policy.

La cybersecurity non è solo exploit e reverse engineering: è anche processi, norme, persone, educazione, cultura aziendale. Se a mancare è la fiducia, l’importante è non guardare mai tutta la scala che si dovrà salire, ma iniziare ad affrontarla un gradino alla volta.

La verità è che nessuno si sente davvero pronto quando inizia. Si entra titubanti, si rimane per convinzione. La paura non è un segnale di inadeguatezza, è il segnale che si sta varcando un confine. La differenza la fa ciò che succede subito dopo: arretrare o fare un passo avanti.

Conclusioni: non esiste un “posto giusto”, esiste il posto che si decide di occupare

La cybersecurity è un’infrastruttura invisibile che tiene in piedi aziende grandi e piccole e persino una parte della vita quotidiana più semplice.

Ogni volta che un attacco viene fermato, che un incidente viene gestito, che una vulnerabilità viene chiusa, c’è qualcuno che ha scelto di stare dall’altra parte dello schermo.

Quel “qualcuno” non ha né volto né genere prestabilito. Può essere chiunque decida di esserci.

Dire che non è un mondo per donne significa, in realtà, accettare in silenzio che la sicurezza di tutti venga progettata e gestita da uno sguardo solo. È una rinuncia. È una forma di resa culturale. È lasciare che metà delle voci resti fuori dalla stanza in cui si prendono decisioni importanti. Ogni donna che sceglie la cybersecurity manda un messaggio potente, anche se non se ne accorge subito:

“Questo spazio mi appartiene tanto quanto a chiunque altro.”

Non è una dichiarazione contro qualcuno, non è una guerra di genere. È un atto di riequilibrio.

È dire ad alta voce ciò che dovrebbe essere ovvio: la competenza, il talento, la capacità di analisi, di gestione della crisi, di lettura del rischio non hanno sesso. Il settore, oggi, ha bisogno di menti lucide, di sguardi diversi, di persone che sappiano restare in piedi in mezzo al caos.

Ogni barriera culturale che scoraggia una ragazza dal provarci non è solo un’ingiustizia individuale, è un pezzo di difesa in meno per tutti.

In un Paese in cui il digitale fatica ancora a trovare spazio, ogni donna che decide di investire in competenze tecniche rompe un pezzo di narrativa vecchia: quella che relega le donne lontano dalle console, dagli alert, dai log, dalle scelte strategiche. Ogni ingresso rende quello successivo un po’ meno faticoso, è così che cambiano i settori: non con una rivoluzione improvvisa, ma con una serie di persone che, una dopo l’altra, si rifiutano di restare fuori.

Non si tratta di essere “più brave degli uomini”. Si tratta di essere sé stesse in un campo che, per troppo tempo, ha fatto finta che esistesse un solo modo “giusto” di essere professionisti IT.

Il posto a quella scrivania, davanti a quei monitor, in quelle riunioni, non è riservato a qualcun altro.

È lì, in attesa di chi decide di occuparlo. Non è il momento di farsi piccole per entrare negli spazi già esistenti, è il momento di allargare quegli spazi finché nessuno si sentirà di troppo.

Chi oggi decide di iniziare un percorso in cybersecurity sta scegliendo di stare dalla parte di chi difende, protegge, costruisce sicurezza dove prima c’era solo vulnerabilità e non c’è ruolo più potente, né per un professionista, né per una donna.

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Immagine del sitoAda Spinelli
Ada Spinelli, 22 anni, CTI e SOC Analyst. Studentessa di Ing. Informatica e membro del Dark Lab e delle Cyber Angels. Traccia APT, analizza malware e indaga nel cybercrime underground, guidata da metodo, curiosità e approccio investigativo.

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