
Diciotto anni dopo che un ictus al tronco encefalico ha lasciato Anne Johnson quasi completamente paralizzata, Questo grazie a un’interfaccia cervello-computer (BCI) che converte il parlato direttamente dai segnali cerebrali. Nel 2005, all’età di 30 anni, l’insegnante e preparatrice di atletica del Saskatchewan ha subito una lesione cerebrale che le ha causato la sindrome locked-in, in cui rimane cosciente ma incapace di parlare o muoversi.
Per anni, ha comunicato attraverso un sistema di eye tracking, parlando a una velocità di circa 14 parole al minuto, significativamente più lenta delle 160 parole che una persona pronuncia normalmente. Nel 2022, è diventata la terza partecipante a uno studio clinico condotto dall’Università della California, Berkeley, e dall’UCSF che mira a ripristinare la parola nelle persone con paralisi grave.
Il sistema neuroprotesico utilizzato registra l’attività elettrica nell’area corticale responsabile dell’articolazione, bypassando le vie di trasmissione del segnale danneggiate. Un impianto con una serie di elettrodi intracranici viene posizionato sulla superficie di quest’area. Quando il paziente cerca di pronunciare le parole, i sensori registrano i modelli caratteristici di attività e li trasmettono a un computer. Gli algoritmi di apprendimento automatico convertono quindi i flussi di segnali neurali in testo, sintesi vocale o espressioni facciali di un avatar digitale, comprese espressioni di base come un sorriso o un’espressione accigliata.
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Inizialmente, il sistema funzionava su modelli sequenziali che producevano risultati solo dopo il completamento dell’intera frase, il che causava un ritardo di circa otto secondi. Nel marzo 2025, Nature Neuroscience ha segnalato il passaggio a un’architettura streaming: ora la conversione viene eseguita quasi in tempo reale, con una pausa di circa un secondo.
Per la massima personalizzazione, gli sviluppatori hanno ripristinato il timbro e l’intonazione della registrazione del discorso di nozze di Johnson del 2004 e hanno anche reso possibile scegliere l’aspetto dell’avatar in modo che fosse riconoscibile e trasmettesse segnali visivi familiari.
I responsabili del progetto – il professore associato di ingegneria elettrica e informatica dell’Università della California, Berkeley, Gopala Anumanchipalli, il neurochirurgo dell’Università della California, Berkeley, Edward Chang, e lo studente laureato di Berkeley, Kylo Littlejohn – vedono l’obiettivo finale nella tecnologia plug-and-play che renderebbe i prototipi strumenti clinici standard.
Gli obiettivi a breve termine includono lo sviluppo di impianti completamente wireless che eliminino la necessità di una connessione fisica a un computer e la creazione di avatar più realistici per la comunicazione naturale. In futuro, prevedono di passare a “sosia” digitali in grado di riprodurre non solo una voce, ma anche uno stile di comunicazione familiare insieme a segnali non verbali.
Questa tecnologia è particolarmente importante per un gruppo ristretto ma vulnerabile di persone che hanno perso la parola a causa di ictus, SLA o traumi. Gli sviluppatori sottolineano un aspetto etico fondamentale: la decodifica viene attivata solo quando si tenta consapevolmente di pronunciare le parole. Questo consente all’utente di mantenere il controllo sulla comunicazione e riduce al minimo il rischio di invasione dello spazio personale.
Per Anne, partecipare al programma è stata una pietra miliare: sta valutando la possibilità di lavorare come consulente in un centro di riabilitazione e di condurre conversazioni con i clienti attraverso una neuroprotesi. Con l’attuale latenza di circa un secondo e i modelli di intelligenza artificiale in rapido miglioramento, i gruppi di ricerca sono cauti sulle possibilità che i sistemi di ripristino della voce siano pronti per l’uso di massa nel prossimo futuro. In sostanza, stiamo parlando di una tecnologia che ripristina la voce di coloro che l’hanno persa e rende il dialogo di nuovo naturale, non attraverso una lenta “digitazione oculare”, ma in una forma familiare dal vivo.
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