
Inva Malaj : 8 Dicembre 2025 09:15
Secondo Eurostat nel 2023 solo il 55% dei cittadini dell’Unione Europea tra i 16 e i 74 anni possedeva competenze digitali almeno di base, con forti differenze tra paesi: si va da valori intorno all’83% nei Paesi Bassi a circa il 28% in Romania.
Questo significa che quasi metà della popolazione adulta europea non ha gli strumenti minimi per orientarsi online. Mentre bambini e ragazzi crescono immersi in ecosistemi digitali complessi, molti degli adulti responsabili della loro educazione – genitori, insegnanti, istituzioni scolastiche – faticano ancora a comprendere linguaggi, logiche e rischi del digitale, e quindi non riescono a guidarli davvero.
Una rassegna sistematica pubblicata nel 2025 su Frontiers in Education ha analizzato oltre venti studi sullo sviluppo professionale in ambito digitale, mostrando che molti programmi di formazione per docenti si concentrano soprattutto sugli aspetti tecnici (come usare una piattaforma o uno strumento) e molto meno su come integrare il digitale nella didattica in modo critico e significativo. La conseguenza è che l’uso delle tecnologie in classe spesso si limita a sostituire il libro o la lavagna, senza trasformare realmente i metodi di insegnamento o sviluppare competenze di cittadinanza digitale negli studenti.
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Per le scuole con un’alta percentuale di studenti svantaggiati il problema è ancora più grave: gli insegnanti di questi contesti, che avrebbero più bisogno di supporto, hanno spesso meno accesso a percorsi di sviluppo professionale strutturati e di qualità sul digitale. Si crea così un doppio divario: i ragazzi più esposti ai rischi e alle fragilità sociali sono anche quelli con meno probabilità di incontrare docenti in grado di sostenerli nella navigazione del mondo online.
Nel 2025 il Department for Science, Innovation and Technology del Regno Unito ha commissionato a Ipsos UK una ricerca qualitativa per capire bisogni e difficoltà dei genitori rispetto ai media digitali dei figli. L’indagine, basata su 15 focus group e 10 interviste in profondità con genitori di bambini tra 7 e 17 anni, descrive adulti consapevoli dei rischi ma spesso disorientati su come affrontarli in modo concreto.
All’inizio molti genitori associavano media literacy quasi solo alla capacità di usare app e dispositivi, non al pensiero critico, alla valutazione delle fonti o alla comprensione delle conseguenze delle azioni online. Solo dopo una definizione più completa del concetto hanno riconosciuto che si tratta anche di aiutare i figli a valutare informazioni, gestire la propria reputazione digitale, tutelare la privacy e costruire relazioni rispettose in rete. Hanno però descritto una sensazione costante di “inseguire” tecnologie e piattaforme sempre nuove, spesso con l’impressione che siano i figli a dover spiegare ai genitori come funzionano gli strumenti che usano ogni giorno.
La stessa ricerca evidenzia una bassa consapevolezza delle risorse esistenti: molti genitori, quando hanno dubbi su sicurezza online, cyberbullismo o contenuti inadatti, si affidano a ricerche veloci su Google o al passaparola, non a materiali strutturati di enti pubblici o programmi educativi dedicati. Le scuole, dal canto loro, offrono talvolta incontri o workshop sulla sicurezza online, ma si tratta di iniziative isolate, non di un percorso continuativo di sostegno alle famiglie.
Fin dalla primaria i bambini ricevono ricerche scolastiche da svolgere online – dal sistema solare ai dinosauri – spesso senza una preparazione specifica su come cercare in sicurezza, valutare una fonte o riconoscere contenuti inaffidabili. Molti docenti riconoscono l’importanza di insegnare abilità di ricerca, ma in pratica queste competenze vengono trasmesse in modo non sistematico e frammentato.
Strumenti come il CRAAP (1. Currency 2. Relevancy 3. Accuracy 4. Authority 5. Purpose.) test (che invita a valutare una fonte in base a attualità, pertinenza, autorità, accuratezza e scopo) sono ampiamente utilizzati in ambito universitario e in alcune scuole, ma raramente entrano in modo strutturato nell’educazione di base. Diverse ricerche hanno mostrato che perfino studenti universitari e professionisti – inclusi storici – tendono a concentrarsi sul contenuto della pagina più che su elementi contestuali critici come l’autore, l’ente responsabile o gli interessi in gioco. Se adulti con alta formazione faticano a orientarsi tra fonti credibili e non, è irrealistico aspettarsi che bambini di otto o dieci anni possano farlo senza una guida esplicita.
Alle medie e alle superiori, gli studenti ricevono account con dominio scolastico su piattaforme come Google Classroom, ma spesso senza una vera “educazione all’uso” che chiarisca le implicazioni etiche, legali e relazionali di questi strumenti. Invece di accompagnarli dentro un ecosistema digitale collaborativo e relativamente protetto – il dominio scolastico usato per documenti, riunioni, presentazioni e lavori condivisi – spesso vengono di fatto lasciati a sperimentare da soli. Parallelamente, molte scuole e classi si appoggiano a gruppi WhatsApp gestiti dai genitori o, talvolta, composti solo da minori per comunicazioni e lavori di gruppo, in spazi che non sono pensati come canali istituzionali, privi di moderazione e tracciabilità, e che espongono inevitabilmente numeri di telefono e altri dati personali.
Analisi recenti sui gruppi WhatsApp scolastici sottolineano rischi concreti: diffusione incontrollata di informazioni, sovrapposizione di piani privati e scolastici, possibilità di conflitti alimentati da fraintendimenti nel linguaggio scritto. Nel frattempo, molti studenti non ricevono una formazione chiara sulla netiquette: non viene spiegato loro che il tono non passa sempre nel testo, che gli screenshot possono circolare a lungo, che la condivisione di immagini altrui richiede consenso, che la comunicazione scritta lascia tracce permanenti.
Numerosi studi sulla digital citizenship education mostrano che, a livello internazionale, una delle criticità più ricorrenti è l’assenza di un curriculum chiaro e progressivo: non è definito in modo condiviso cosa debba saper fare un bambino di otto anni rispetto a ricerca online e sicurezza, o quali competenze di valutazione delle fonti e gestione dei social debba avere un quattordicenne. In mancanza di questi riferimenti, ogni scuola, e spesso ogni docente, costruisce il proprio percorso, con inevitabili lacune e sovrapposizioni per gli studenti.
La letteratura recente individua quattro ostacoli principali che ricorrono nei diversi sistemi scolastici:
In questo quadro, l’educazione digitale rischia di diventare il “modulo extra” da inserire quando avanza tempo, invece di una lente trasversale con cui leggere e insegnare tutte le discipline.
Gli studi più recenti sul rapporto tra tempo di schermo e risultati scolastici mostrano un quadro più sfumato rispetto alla narrativa “più schermo = meno apprendimento”. Una ricerca longitudinale canadese, seguita fino al 2023, ha osservato un’associazione tra maggior tempo di schermo nella prima infanzia e punteggi leggermente più bassi in lettura e matematica negli anni successivi, in particolare per l’uso passivo di televisione e video. Gli autori sottolineano però che l’impatto dipende molto dal tipo di contenuto, dal contesto (uso solitario o condiviso con adulti) e dal tempo sottratto ad attività come gioco, lettura e interazione faccia a faccia.
Il punto quindi non è demonizzare lo schermo in sé, ma interrogarsi su come viene usato: un tablet può essere strumento di creatività, esplorazione e apprendimento attivo, oppure semplice intrattenimento passivo che sostituisce esperienze fondamentali per lo sviluppo cognitivo e sociale. Senza adulti in grado di distinguere e di accompagnare i bambini in queste scelte, si resta nella logica dei divieti generici o del “fai tu”.
La letteratura internazionale sul digital divide mette in evidenza come il problema non sia solo la disponibilità di dispositivi e connessioni, ma anche – e soprattutto – la capacità di usarli in modo competente. Bambini che crescono in famiglie a basso reddito hanno in media meno accesso a computer e banda larga a casa, e i loro genitori hanno meno probabilità di possedere competenze digitali sufficienti per assisterli in compiti, ricerche e gestione sicura dei social.
Analisi su dati statunitensi mostrano che le famiglie con redditi alti hanno più spesso più dispositivi e connessioni stabili, mentre una quota significativa di adulti con redditi bassi si affida esclusivamente allo smartphone per l’accesso a Internet. Durante la pandemia, questo si è tradotto in difficoltà concrete nel seguire la didattica a distanza: molti studenti non potevano collegarsi con continuità, non disponevano di uno spazio tranquillo o di un adulto in grado di supportarli con gli strumenti digitali. In pratica, il digitale, invece di ridurre le disuguaglianze, rischia di amplificarle se non è accompagnato da politiche di inclusione e da educazione mirata.
Un rapporto della London School of Economics ha analizzato come i curricoli scolastici affrontano misinformazione e alfabetizzazione digitale, mostrando che il pensiero critico spesso viene insegnato in modo astratto, senza affrontare in profondità i meccanismi specifici con cui notizie false e contenuti distorti circolano online. In molte scuole, gli studenti imparano a “fare riassunti” o a “scrivere temi”, ma non a verificare la provenienza di una notizia, a riconoscere titoli manipolativi, o a comprendere il ruolo degli algoritmi nella costruzione del proprio feed.
Ricerche di fondazioni come la Nuffield e il Jubilee Centre nel Regno Unito indicano però che bambini tra i 9 e gli 11 anni possono imparare a riconoscere elementi tipici delle fake news se ricevono un insegnamento esplicito, continuo e integrato nelle diverse materie, non limitato a un progetto isolato. Dove la “news literacy” viene trattata come competenza di base, i ragazzi sviluppano più anticorpi verso contenuti fuorvianti e sono meno vulnerabili a campagne orchestrate di disinformazione.
Per evitare che l’educazione digitale resti uno slogan vuoto, servono interventi coordinati su tre livelli. Secondo European Digital Education Content Framework:
Il quadro che emerge dai dati europei e dalla ricerca internazionale è chiaro: viviamo in società altamente digitalizzate in cui molti adulti non hanno ancora sviluppato competenze adeguate per muoversi, figurarsi per educare altri a farlo. Finché questa realtà non viene affrontata apertamente, continueremo a pretendere che i bambini imparino da soli a stare online, mentre gli adulti che dovrebbero guidarli restano indietro.
Spostare l’attenzione da “Internet non è fatto per i bambini” a “gli adulti non sono ancora pronti a educare nel digitale” è scomodo, ma necessario. Significa riconoscere che l’alfabetizzazione digitale – per docenti, genitori e istituzioni – è ormai una componente essenziale della cittadinanza e dell’educazione di base, non un accessorio tecnologico. Finché questo salto culturale non avverrà, il paradosso resterà intatto: nativi digitali lasciati soli in un ambiente che gli adulti non comprendono abbastanza da insegnare. E questo, al di là dei proclami, è il vero fallimento educativo del nostro tempo.
Inva Malaj
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