Stefano Gazzella : 4 Marzo 2025 11:21
Quante volte si sente dire che è impossibile fare innovazione in Europa seguendo le regole? Certamente, i giganti della Silicon Valley hanno tutto l’interesse ad un ragionamento in senso opposto: prima si propone sul mercato la scintillante novità tecnologica, puntando sull’effetto “wow” e prescindendo da ogni regola. Insomma: anarco-capitalismo negli intenti, ma anche la realtà statunitense non tollera alcuni eccessi soprattutto se investono il funzionamento del mercato e i consumatori, tant’è che gli interventi in tema antitrust e la stessa Federal Trade Commission non si può dire che abbia la mano leggera a riguardo.
In Europa gli innovatori hanno più volte rappresentato il “nodo” della privacy e del GDPR come un ostacolo alla “voglia di fare”. Che però significa più “voglia di fatturare”, diciamo la verità.
Adeguarsi ad una normativa ha dei costi, quindi ben si può comprendere il ragionamento se lo condiamo con la giusta dose di onestà intellettuale. Se qualcuno si presenta come buon imprenditore o manager dell’innovazione dovrà tenerne conto prima di lanciare un prodotto o servizio, piuttosto che lamentarsi dopo.
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Altrimenti rischia di apparire poco credibile o poco capace. O altrimenti una combinazione di entrambe le cose.
Assolutamente sì. E chi dice il contrario tendenzialmente o segue degli idealismi che comportano un certo grado di miopia selettiva, o altrimenti vuole difendere il proprio business.
Dopodiché, è abbastanza evidente che una buona regolamentazione può produrre esternalità positive o prevenire esternalità negative in quanto introduce dei correttivi all’interno del mercato. Ma questo dovrebbe essere alla base di ogni ragionamento sull’opportunità o meno di introdurre, o riesaminare, determinate norme.
Il costo per le iniziative imprenditoriali di innovazione trova – o meglio: deve trovare – un bilanciamento proporzionato nelle tutele cui la norma provvede. E poiché gran parte delle innovazioni sono data-driven, viene da sé che un elemento cruciale è costituito dalle normative in materia di protezione dei dati personali che provvedono anche a garantire una libera circolazione degli stessi. La linea di indirizzo e di interpretazione è il voler perseguire un’innovazione sostenibile ed umanocentrica che abbia impatti negativi minimi nei confronti delle persone e dei loro diritti fondamentali. Per meglio dire: impatti accettabili a fronte dei benefici conseguiti.
Se però un’azienda sceglie di risparmiare e non curarsi delle regole realizza un risparmio nell’immediato e consegue un vantaggio competitivo nei confronti di chi altrimenti si è preoccupato di seguire le “regole del gioco”. Questo comporta una violazione delle regole di concorrenza, motivo per cui già nel prossimo futuro c’è una maggiore attenzione da parte dell’Antitrust sull’impiego dei dati.
che viola le regole di una corretta concorrenza. Motivo per cui ci si attende una sempre maggiore dell’Antitrust sugli aspetti dell’impiego dei dati.
Attenzione però nell’indulgere nel rispetto quasi-sacrale di una regola, fino al punto di ritenerla giusta by default. E soprattutto insindacabile o impermeabile ai mutamenti di contesto derivanti dalla continua evoluzione tecnologica che ha una velocità naturalmente maggiore rispetto all’iperproduzione normativa made-in-EU.
Si indulge spesso nella superbia propria del vecchio continente di ritenersi un giardino nella giungla e presentare dunque la propria produzione normativa come il migliore dei mondi possibili. Spesso in modalità panglossiana, ricordando Voltaire, e assolutamente apodittica quanto autoreferenziale. Questa è un’allucinazione a tutti gli effetti, poiché – restando nella volontà di declinare citazioni letterarie – Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia. Figuriamoci rispetto a quante ne possa immaginare una norma che spesso dà la sensazione d’esser stata redatta da chi della materia regolata, eufemisticamente parlando, ha una comprensione limitata o fondata su ragionamenti fallaci.
Internet ha interconnesso il mondo e noi oggi lo vorremmo dividere in uno Splinternet in cui c’è un riverbero di culture, norme e quant’altro che ricordano le ombre sulla caverna di platonica memoria. Rassicuranti e confortanti quel tanto che basta per dare un’impressione che tutto corrisponda ai migliori desiderata.
Quanto poi quel velo di Maya viene smentito dalla realtà che semplicemente si presenta alla porta in tutta la sua immanenza, alcuni cercano addirittura di ergere nuovi castelli di regole e così si indulge nel micromanagement normativo che vorrebbe plasmare il mondo. Il condizionale è d’obbligo perché se mancano le risorse per attuare questo cambiamento, il fatto di desideralo soltanto può essere uno spunto utile per una frasetta motivazionale o un tatuaggio e poco più.
Il made-in-EU si è nutrito per lungo tempo della convinzione d’essere il centro del mondo, ma il fenomeno della trasformazione digitale ha decisamente spostato e sta scomponendo sempre più l’Axis Mundi e forse un domani potrebbe addirittura perdere senso come concetto. Un percorso irreversibile di cui si dovrà tenere conto prima di difendere le proprie allucinazioni per ragioni di principio.
Piuttosto, forse sarebbe bene riconsiderare i ragionamenti valorizzando i principi generali delle norme operandosi affinché questi vengano condivisi a livello internazionale. Condividendone i valori.
Altrimenti, tanto i lamenti del “In Europa non si può fare innovazione” quanto quelli del “Ma perchè il mondo non si piega alle nostre regole…” saranno destinati a perdersi come lacrime nella pioggia degli innumerevoli futuri che mai potranno essere realizzati.
Fine prima pars destruens.
Sipario.
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