
Cinque giorni a Londra, e mi è sembrato di vivere dentro una demo permanente del futuro. Quello patinato, comodo, “frictionless”. Quello dove fai tutto con un tap. Solo che, a forza di tap, alla fine ti accorgi che non stai solo pagando: stai firmando, ogni minuto, un diario dettagliato della tua vita.
Il viaggio l’ho comprato su Ryanair. L’hotel su Booking. Poi arrivi lì e capisci subito l’andazzo: trasporti, musei, spostamenti, perfino la scelta del pub per la serata… tutto passa dal telefono. La metro ti incentiva a usare la carta: contactless e via, “uno per persona”, e ti costa meno che fare il romantico col biglietto comprato al volo.
I bus li gestisci con app e pagamenti digitali. Biciclette e monopattini? App. Prenotazioni per musei? Sito o app. Cerchi un posto carino per una pinta e, come sempre, Google Maps ti prende per mano: “gira qui, attraversa là, sei arrivato”.
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Comodo? Da impazzire.
E infatti è qui la trappola: la comodità è l’esca perfetta, perché non la percepisci come una rinuncia. La vivi come un upgrade.
Poi torni a casa, fai il recap mentale della vacanza, e ti arriva addosso l’ennesima conferma: la rete sa perfettamente dove sono stato, minuto per minuto. Sa cosa ho comprato, quando, dove, quanto spesso. Sa i miei spostamenti, le mie abitudini, i miei orari. E non sto parlando della classica “profilazione” da pubblicità fastidiosa. Qui siamo oltre: è la possibilità concreta di ricostruire la tua vita come un film, con timestamp e geolocalizzazione.
A quel punto la parola “privacy” smette di essere un concetto astratto, un tema da convegno, una cosa da “impostazioni dell’account”. Diventa una sensazione fisica: quella di essere leggibile. Tracciabile. Prevedibile.
E la domanda diventa inevitabile: quando tutto passa dal digitale, quanto resta davvero della libertà? Perché la libertà non è solo “posso fare cose facilmente”. Quella è praticità. La libertà, nel senso profondo, è anche poter essere opaco quando vuoi. Poter fare una scelta senza lasciare una scia. Poter esistere senza dover produrre dati.
Qui entra in gioco il tema del contante, che viene sempre buttato in caciara con la storia dell’evasione fiscale. Io la metto giù semplice: non c’entra niente. Se pago un caffè in contanti, nessuno sa che l’ho bevuto, a che ora, in quale zona, con quale frequenza, e magari pure con che “gusti” (macchiato, cappuccino, d’orzo… quello che vuoi). Il barista può farmi lo scontrino, la fiscalità può essere perfettamente a posto: il punto non è “nascondere” qualcosa, il punto è non trasformare ogni gesto quotidiano in un dato permanente.
Se invece pago elettronicamente, quella singola azione diventa informazione strutturata: importo, luogo, orario, ricorrenza. E non la vede “solo la banca”. La vede un intero ecosistema, fatto di intermediari, circuiti, sistemi antifrode, provider, analytics, correlazioni, consensi “accettati” con un tap frettoloso mentre sei in coda. La narrativa è: “ti stiamo semplificando la vita”. La realtà è spesso: “stiamo rendendo la tua vita misurabile”.
La parte più sottile (e più pericolosa) è che questo controllo non serve necessariamente a “spiarti” in modo cinematografico. Serve a normalizzare l’idea che tutto debba essere osservabile. Che ogni cosa debba lasciare traccia. Che l’opacità sia sospetta, l’anonimato un difetto, la riservatezza una stranezza da complottisti.
E attenzione: non sto dicendo “torniamo alle candele”. Io per primo uso servizi digitali, prenoto online, mi muovo con mappe e pagamenti smart. Il punto non è demonizzare la tecnologia. Il punto è riconoscere il prezzo. Perché se il prezzo non lo vedi, lo paghi due volte: una in dati, l’altra in potere ceduto.
Il futuro, se non lo governi, tende sempre a scegliere la strada più comoda per chi raccoglie informazioni, non per chi le produce. E noi le produciamo continuamente, anche quando pensiamo di star semplicemente vivendo.
La vera domanda, allora, non è “privacy sì o no”. È: vogliamo un mondo in cui l’unico modo di funzionare è essere tracciati? Vogliamo che la partecipazione alla vita quotidiana passi da strumenti che, per progettazione, registrano e correlano tutto? Perché a quel punto la libertà non sparisce con un decreto: svanisce per assuefazione. Un tap alla volta.
Se vogliamo restare padroni del gioco, dobbiamo ricominciare a pretendere alternative sensate: pagamenti digitali sì, ma senza trasformare tutto in profilazione; servizi efficienti sì, ma con minimizzazione dei dati; comodità sì, ma senza ricatto “o così o niente”. E, ogni tanto, anche un gesto semplice e quasi sovversivo: scegliere di essere meno leggibili. Non perché abbiamo qualcosa da nascondere, ma perché abbiamo ancora qualcosa da difendere. La nostra autonomia.
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