
Come penalista e docente di Diritto Penale dell’Informatica, allievo del compianto Maestro Vittorio Frosini, pioniere dell’Informatica Giuridica in Italia, mi trovo costantemente a riflettere sullo stato della nostra formazione. È una riflessione che si scontra con l’accelerazione della storia: l’opera di Frosini, Cibernetica, diritto e società del 1968, seppur avanguardistica per l’epoca, è oggi un metro di paragone per misurare quanto il sistema giuridico italiano sia riuscito a stare al passo con la “società digitale” che lui anticipava.
La mia stessa traiettoria professionale riflette questa evoluzione. Quando pubblicai il mio primo libro,Teoria e Pratica nell’interpretazione del reato informaticonel 1997, l’approccio era inevitabilmente più speculativo. Il testo era prevalentemente teorico e dogmatico, uno sforzo necessario per catalogare e comprendere fattispecie che si stavano appena affacciando nelle aule di giustizia. L’esperienza pratica, in quel momento, era ancora in fase embrionale. Oggi, con trent’anni di attività forense e didattica, l’ultimo lavoro,Il Diritto penale dell’informatica: legge, giudice e società del 2021, presenta un taglio profondamente diverso. È un testo imbevuto di consapevolezza pratica, frutto di innumerevoli confronti con la prova digitale, le perizie tecniche e la giurisprudenza sedimentata. Il passaggio dalla pura teoria alla comprensione dei fenomeni e delle dinamiche tecnologiche è stato un percorso lungo e, soprattutto, un monito costante sulla necessità di un dialogo continuo tra il diritto e l’ingegneria.
Oggi, in piena emergenza Cybersecurity, l’appello di Frosini a formare giuristi “cyber-ready” è un imperativo, non un’opzione accademica.
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Osservando l’attuale panorama formativo italiano, si individua una significativa disomogeneità. L’offerta nel settore è oggi biforcuta, presentando un divario significativo tra la fascia dell’alta specializzazione e quella della formazione di base.
Da un lato, registriamo con soddisfazione l’eccellenza che emerge nell’alta formazione. Negli ultimi anni, si è assistito a un lodevole fiorire di Master universitari e Corsi di Perfezionamento in “Cybersecurity Law”, “Digital Forensics” e “Cybercrime”. Queste iniziative sono generalmente caratterizzate da interdisciplinarità, un approccio integrato che unisce il diritto penale (IUS/17) con le discipline tecniche (ING-INF) e le scienze investigative, riconoscendo che la comprensione del fenomeno criminale digitale è impossibile senza la cognizione del substrato tecnologico. Hanno una costante attenzione all’adeguamento normativo, seguendo Regolamenti e Direttive europee come GDPR, NIS2 e AI Act, che ridefiniscono continuamente il perimetro della legalità e della responsabilità. Infine, mostrano un chiaro orientamento al mercato, formando figure professionali altamente richieste da aziende, Pubbliche Amministrazioni e agenzie specializzate (ACN, Polizia Postale), capaci di operare come Data Protection Officer, Compliance Officer e consulenti legali in scenari di crisi cyber. Tuttavia, questi percorsi specialistici rimangono percorsi d’élite, spesso accessibili solo a laureati già motivati e con risorse economiche adeguate.
L’ombra di questo scenario risiede nella criticità della formazione giuridica di base. La vera debolezza del sistema risiede nella formazione curriculare standard della Laurea Magistrale in Giurisprudenza. Ancora oggi, in molti Atenei, il Diritto Penale dell’Informatica o materie affini non figurano tra gli insegnamenti fondamentali e obbligatori, relegati spesso al ruolo di esame a scelta. Questa impostazione genera un profondo gap culturale e tecnico, per cui una vasta platea di futuri avvocati, magistrati e notai conclude il percorso di studi senza una cognizione adeguata dei fenomeni illeciti che plasmano la società contemporanea.
Il problema non è solo quantitativo, ma qualitativo. Quando la materia viene affrontata, talvolta si limita a una trattazione astrattamente dogmatica delle fattispecie codicistiche (come l’art. 615-ter c.p. o l’art. 640-ter c.p.), senza fornire agli studenti gli strumenti per comprendere le dinamiche tecnologiche dei reati (ad esempio, le architetture di un attacco phishing evoluto, la logica di una blockchain, l’impatto dei sistemi di Intelligenza Artificiale), per gestire la prova digitale, elemento cruciale e spesso il più problematico in un procedimento penale informatico, o per interpretare il Diritto Penale alla luce del dato tecnico, un passaggio essenziale per l’effettiva applicazione della norma incriminatrice. Questa carenza si ripercuote direttamente sulla capacità del sistema giudiziario e forense di affrontare la crescente complessità del cybercrime, la cui transnazionalità e rapidità richiedono una risposta giuridica immediata e tecnicamente fondata.
L’eredità intellettuale di Frosini, che auspicava la nascita di una “giuritecnica”, ci impone oggi di superare l’idea che la tecnologia sia un elemento “esterno” o meramente accessorio al diritto. Al contrario, essa ne è divenuta la sua struttura portante e il principale veicolo di aggressione dei beni giuridici.
Per colmare il divario, la riforma deve passare attraverso l’introduzione di un approccio tecnico-giuridico obbligatorio nei curricula di Giurisprudenza. Non si tratta di formare programmatori o ingegneri, ma di forgiare giuristi che possiedano una competenza di base sulle dinamiche tecnologiche sufficiente a interpretare la legge, gestire la prova e patrocinare efficacemente. Questo significa eleggere il Diritto Penale dell’Informatica, e gli altri Diritti delle tecnologie, a disciplina fondamentale per tutti gli operatori del diritto e incoraggiare l’integrazione di moduli didattici tenuti in collaborazione con esperti tecnici, simulazioni di case study giurisprudenziali e sessioni di analisi di report forensi.
L’Eredità di Frosini, e di altri Maestri come Ettore Giannantonio e Renato Borruso, è, in definitiva, un monito professionale: il giurista moderno non può più permettersi di essere un analfabeta funzionale rispetto al mondo digitale. Egli deve essere al passo con i tempi, capace di comprendere i fenomeni e le dinamiche tecnologiche che generano rischio e illecito, per tutelare efficacemente i beni giuridici nell’era digitale. Solo attraverso un rinnovamento radicale della formazione universitaria, che ponga la “giuritecnica” al centro del sapere giuridico, il nostro Paese potrà schierare professionisti in grado di affrontare le sfide del nuovo scenario globale e tutelare pienamente i propri interessi nazionali. L’emergenza Cybersecurity impone di trasformare l’utopia di Frosini nella prassi della didattica.
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