
Negli ultimi giorni è stata individuata una campagna di malvertising che ha come bersaglio gli utenti aziendali che cercano di scaricare Microsoft Teams. A prima vista, l’attacco sembra banale: un annuncio sponsorizzato porta a una pagina di download, l’utente scarica un file chiamato MSTeamsSetup.exe e lo avvia. Ma i dettagli fanno la differenza, e sono proprio questi dettagli che rendono l’operazione tanto insidiosa.
Il file non è un normale eseguibile malevolo, è firmato digitalmente. Per molti, questo è sinonimo di affidabilità. In realtà, gli attaccanti hanno trovato un modo per sfruttare la fiducia nella firma digitale a proprio vantaggio: utilizzano certificati “usa-e-getta”, validi solo per poche ore o pochi giorni, giusto il tempo necessario a distribuire il malware e infettare sistemi prima che la firma venga invalidata o segnalata come sospetta. È un approccio veloce e automatizzato che riduce la possibilità che i controlli di sicurezza basati sulla reputazione abbiano il tempo di reagire.
L’intero attacco, come analizzato dai ricercatori di Conscia, può essere visto come una catena di compromissione composta da fasi distinte ma strettamente collegate.
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Ogni fase lascia tracce osservabili che possono essere rilevate se si sa cosa cercare:
Non è un singolo segnale che fa la differenza, ma la combinazione: se almeno due o tre di questi elementi si verificano insieme, è molto probabile di trovarsi davanti a questa specifica catena malevola.
Per ridurre i rischi, è fondamentale agire su più livelli. Alcune misure concrete:
Formare gli utenti: spiegare di scaricare Teams solo dal portale ufficiale Microsoft e di diffidare degli annunci sponsorizzati nei motori di ricerca.
Infine, avere un playbook di risposta agli incidenti pronto è essenziale: isolamento dell’endpoint, raccolta delle evidenzie (hash, chiavi di registro, scheduled task), verifica delle connessioni di rete e rotazione immediata delle credenziali compromesse.
Quello che rende questa campagna particolarmente pericolosa non è tanto la complessità tecnica, quanto la velocità. Gli attaccanti hanno imparato ad automatizzare il ciclo di vita: creano un certificato, registrano un dominio, distribuiscono il file, raccolgono dati e cambiano tutto di nuovo — spesso nell’arco di poche ore.
Per i difensori, questo significa che non si può più contare soltanto sui feed di minacce che arrivano con ritardo. Servono telemetria in tempo reale, regole comportamentali e capacità di risposta automatizzata. È una corsa contro il tempo, e la velocità del SOC diventa il fattore decisivo.
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