
Quello dello scorso 1 aprile non era un pesce d’aprile: la prima udienza del caso Latombe c. Commissione, infatti, rinviava alla data del 3 settembre per un giudizio sul ricorso presentato per l’annullamento della decisione di adeguatezza relativa al Data Privacy Framework.
Una decisione di adeguatezza è lo strumento giuridico previsto dall’art. 45 GDPR attraverso il quale la Commissione riconosce che un paese terzo o un’organizzazione garantisce un livello di protezione adeguato, anche in relazione a un ambito territoriale o settoriale, consentendo così il trasferimento internazionale dei dati personali senza che debbano ricorrere ulteriori autorizzazioni o condizioni.
Con un comunicato stampa la il Tribunale dell’Unione europea ha reso noto l’esito del giudizio, respingendo il ricorso e riconoscendo che il quadro normativo vigente negli Stati Uniti garantisce un livello di protezione “essenzialmente equivalente” a quello garantito dalla normativa europea sulla protezione dei dati personali.
Insomma: al momento è stato evitato un effetto “Schrems III”. Ma c’è ancora la possibilità di un altro grado di giudizio.
La storia degli accordi fra Stati Uniti e Unione Europea per il trasferimento dei dati personali è particolarmente travagliata: prima il Safe Harbor, poi il Privacy Shield vennero annullati in seguito alle sentenze Schrems I e Schrems II. Motivo per cui nel 2023 è intervenuto il nuovo accordo del Data Privacy Framework.
Le questioni cruciali affrontate anche nel ricorso di Latombe riguardano l’effettività delle tutela giurisdizionale e la legittimità della raccolta e impiego dei dati da parte delle agenzie di intelligence statunitensi.
Nella sentenza si affronta il percorso di rafforzamento delle garanzie fondamentali implementate dagli Stati Uniti in materia di trattamento dei dati personali attraverso l’istituzione e il funzionamento della Data Protection Review Court (DPRC), la corte incaricata del controllo della protezione dei dati. L’indipendenza della DPRC, contestata nel ricorso, è stata confermata constatando che è stata assicurata in forza degli ordini esecutivi presidenziali. Circa il tema della raccolta massiva dei dati personali da parte delle agenzie di intelligence, il Tribunale ha valutato che la tutela giurisdizionale offerta dalla DPRC è equivalente rispetto a quella garantita dal diritto dell’Unione.

La reazione di noyb, l’ONG di Max Schrems di attivisti dei diritti digitali, contesta la decisione del Tribunale e fa intendere che nel caso di differenti argomenti di ricorso, o anche di un’impugnazione della sentenza di fronte alla CGUE, l’esito sarà ben differente. Uno dei punti critici riguarda l’indipendenza, garantita da un ordine presidenziale e non dalla legge, che in relazione all’attuale contesto dell’amministrazione Trump non può certamente dirsi un presidio sufficiente.
Le sorti del Data Privacy Framework restano incerte. Elemento che può essere deducibile anche da uno dei passaggi della sentenza, in cui si ricorda che la Commissione deve valutare eventuali mutamenti del contesto normativo nel tempo.
Insomma: non c’è nessun “sempre e per sempre”, ma è possibile che l’adeguatezza venga riesaminata ed essere sospesa, modificata o revocata in tutto o in parte da parte della stessa Commissione. O altrimenti essere annullata per effetto di un intervento della CGUE.
Qualora dovesse venir meno il Data Privacy Framework, è comunque possibile comunque fare ricorso a garanzie adeguate o altrimenti ricevere un’autorizzazione specifica da parte di un’autorità di controllo, come previsto dall’art. 46 GDPR e come avvenuto in precedenza.
Tutto questo è un déjà-vu. Ma più che un glitch della Matrix, esprime l’inevitabile interferenza della politica internazionale sulla stabilità della normativa. Rendendo evidenti e ricorrenti le contrapposte pretese di sovratensione normativa tanto da parte degli Stati Uniti che dell’Unione Europea.
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