
Stefano Gazzella : 21 Marzo 2024 07:22
La pretesa di scardinare i diritti digitali fondamentali grazie alla facile scusa di “creare un ecosistema più sicuro per i minori” è un programma condiviso da parte di molti Paesi europei. Peraltro, con il benestare di autorità di controllo le quali forse preferiscono tacere o peggio fornire un endorsement a riguardo, andando così a benedire l’intento di aumentare i controlli dell’attività online in nome di proclamazioni spesso apodittiche e che vogliono escludere ogni tipo di obiezione o confronto a riguardo.
Difatti, se le premesse sono artatamente costruite chi potrebbe negare che c’è l’esigenza di tutelare i minori, soggetti emblematicamente fragili e meritevoli di protezione, anche nell’ambiente online? E così si alimenta l’illusione di quella indimostrata correlazione fra maggiore controllo e maggiore sicurezza, che da sempre ha interessato – e anzi: facilitato – l’esercizio del potere fino ai suoi margini di applicazione discrezionale e autoritaria. Tanto nel pubblico, quanto nel privato. Di fatto si vuole forzare la mano sul consentire operazioni di tracciamento e raccolta massiva dell’attività digitale degli utenti, con buona pace del rischio di dossieraggi 4.0. Il tutto per perseguire scopi artatamente costruiti per essere posti al di fuori delle maglie di un controllo di proporzionalità e dei contrappesi fra diritti fondamentali, che invece sono necessarie per garantire affinché nessun diritto possa ergersi come tiranno sugli altri.
Questa è la sensazione che può derivare dal Regolamento Chatcontrol, nonché per la proposta di sorveglianza di massa attraverso l’impiego di AI. Al mutare delle tecnologie, i problemi sembrano sempre riguardare quella frizione fra diritti fondamentali dell’individuo che ha portato all’evoluzione del diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali nelle sue sfumature più mature.
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Il “nemico pubblico” di queste politiche è ovviamente l’anonimato, che la Dichiarazione dei diritti di internet ancora prevede al suo interno ma che probabilmente viene dimenticato sistematicamente per ragioni di opportunità e convenienza. Anche negli annunci di alcuni esponenti politici, che vorrebbero demonizzare questa forma di partecipazione ad internet pur di non ammettere il proprio fallimento nell’educazione sociale del cittadino digitale.
Per quanto la tesi secondo cui l’attività illecita online venga perpetrata giovandosi dell’anonimato, e che la sua eliminazione porterebbe ad una riduzione degli illeciti, sia particolarmente suggestiva, non è possibile reperire alcuno studio a riguardo. Il più delle volte viene presentata avvalendosi della fallacia logica dell’uomo di paglia, secondo cui chi si rifiuta di rinunciare all’anonimato ha qualcosa da nascondere o peggio vuole difendere attività illecite. Addirittura, accusando di agire così in danno di minori e altri soggetti fragili.
Accusa che però viene facilmente dispersa colpendone proprio i punti deboli.
“Arguing that you don’t care about the right to privacy because you have nothing to hide is no different than saying you don’t care about free speech because you have nothing to say.”
Sembra che la distorsione del diritto alla privacy sia il vero nodo culturale che deve essere sciolto, consci degli interessi che si possono contrapporre ad esso e, soprattutto, delle motivazioni che sostengono l’azione degli stakeholder coinvolti. Altrimenti, come la rana di Chomsky, saremo portati ad accettare un crescente controllo e l’interferenza con i diritti fondamentali online sarà nel tempo nient’altro che una ridefinizione degli stessi. In nome di qualcosa che forse non vogliamo, o peggio, non ci interesserà più ricordare.
Stefano Gazzella
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