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La Cassazione solleva l’interessato dagli oneri probatori per l’accesso ai dati personali

La Cassazione solleva l’interessato dagli oneri probatori per l’accesso ai dati personali

Stefano Gazzella : 15 Aprile 2023 09:17

La Cassazione con l’ordinanza n. 9313/2019 conferma che in caso di esercizio di diritto d’accesso la risposta all’interessato è d’obbligo entro i termini indicati dal GDPR. Viene inoltre indicato questo principio di diritto:

“In materia di trattamento dei dati personali, il soggetto onerato dell’obbligo di fornire risposta in ordine al possesso (o meno) dei dati sensibili è il destinatario dell’istanza di accesso e non invece l’istante, dovendo il primo sempre riscontrare l’istanza dell’interessato, anche in termini negativi, dichiarando espressamente di essere, o meno, in possesso dei dati di cui si richiede l’ostensione”.

Nulla di nuovo sotto il sole, insomma, rispetto a quanto già indicato dal Garante ad esempio per il provvedimento sanzionatorio nei confronti di Deutsche Bank. Il termine indicato dall’art. 12 GDPR (e dunque: un mese dalla richiesta) per fornire un risconto è perentorio e non suscettibile di eccezione. Anche in caso di rifiuto della richiesta o altrimenti di comunicazione dell’esigenza di un termine ulteriore (mai superiore ad altri 2 mesi).


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Quanto viene messo in rilievo dall’ordinanza che cassa con rinvio la sentenza impugnata, riguarda l’aspetto del riparto degli oneri probatori fra titolare e interessato. Dalla corretta interpretazione fornita dalla Cassazione riguardante la norma, infatti, emerge chiaramente che non è l’interessato a dover provare che il titolare è in possesso dei propri dati personali altrimenti sarebbe sottoposto ad una vera e propria probatio diabolica. Anche perchè sarebbe in contraddizione con il carattere stesso del contenuto della richiesta di accesso ex art. 15 GDPR che può riguardare anche “la conferma che sia o meno in corso un trattamento di dati personali“.

Un’inversione dell’onere probatorio circa il dover dimostrare una sussistenza del diritto di accesso andrebbe infatti a svilire la portata dello stesso. E di conseguenza, dal momento che è il presupposto per poter esercitare correttamente anche gli ulteriori diritti garantiti dal GDPR agli interessati, le garanzie poste a tutela degli interessati nei confronti delle attività di trattamento svolte sui propri dati prsonali. Senza conferma di attività di trattamento dei propri dati personali (fra cui, è bene ricordare, è inclusa la conservazione e l’archiviazione) e le ulteriori informazioni a riguardo, l’interessato non può infatti avere idea della possibilità di esercizio in concreto di alcuno dei diritti garantiti dagli artt. 16 a 22 GDPR.

Parimenti l’onere di comprovare un carattere manifestamente infondato o eccessivo della richiesta di accesso non può che gravare sul titolare del trattamento e mai, all’inverso, sull’interessato. Altrimenti si assisterebbe o ad una medesima compressione del diritto o altrimenti a formule meramente di stile ed autodichiarative.

Se però gli Ermellini confermano tale diritto nelle modalità di esercizio, con riferimento a termini e riparti probatori, sarà bene invece ragionare su talune forme di abuso. Una fra tutte, la cosiddetta DSAR weaponization ovverosia la pratica di formulare richieste di accesso pretestuose e finalisticamente orientate a scopi “estranei” rispetto a quelli astrattamente previsti dalla norma come destinatari delle tutele. Ma questa è un’altra storia.

Immagine del sitoStefano Gazzella
Privacy Officer e Data Protection Officer, è Of Counsel per Area Legale. Si occupa di protezione dei dati personali e, per la gestione della sicurezza delle informazioni nelle organizzazioni, pone attenzione alle tematiche relative all’ingegneria sociale. Responsabile del comitato scientifico di Assoinfluencer, coordina le attività di ricerca, pubblicazione e divulgazione. Giornalista pubblicista, scrive su temi collegati a diritti di quarta generazione, nuove tecnologie e sicurezza delle informazioni.

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