
Redazione RHC : 22 Ottobre 2022 10:56
Autore: Gianluca Tirozzi
Il mondo è in guerra, una guerra in cui la narrazione la fa da padrona, dichiarata in modo scenico ed interpretata in modo altrettanto scenico da tutti suoi attori, più o meno influenti sulla scena internazionale. Non manca nulla per la trama di un avvincente romanzo: i buoni, l’Alleanza Atlantica; il cattivo, Vladimir Putin e l’eroe, Zelensky.
Questo è il copione se si guarda a quel conflitto sfruttando un indirizzo IP occidentale, viceversa, se l’indirizzo IP è attestato nella Federazione Russa avremo nella parte del buono un biondo paladino antinazista, protettore dei deboli del Donbass e acerrimo nemico del vizio e della corruzione, la bellicosa America che si avvale dell’Alleanza Atlantica per annichilire il suo avversario di sempre, la Russia, e l’eroica resistenza del popolo russo alla perdizione di un Occidente schiavo di élite malvagie.
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Ciò che risulta più difficile distinguere, a prescindere dalla latitudine di rete da cui si guarda il conflitto, è quanto la suggestione mediatica dipinga la realtà e quanto, invece, la realtà riesca a suggestionare il pubblico. Neppure scendere sul campo aiuterebbe, le prospettive sarebbero diverse a seconda di dove e quando ci si confronta con lo scenario. Di certo vi è una verità degli accadimenti indiscutibile, è ad essa che uno sguardo attento dovrebbe mirare ed è proprio su di essa che interviene la comunicazione dell’una e dell’altra parte. Ciò che fa la differenza nell’influenzare il pubblico è la comunicazione di quella verità, talvolta narrata pedissequamente, talaltra stravolta ad arte mediante vere e proprie invenzioni o mistificazioni.
Niente di nuovo, le operazioni di Intelligence fanno questo sin dall’alba di quella che può essere definita la disciplina delle “arti nere”: scienza, analisi, sintesi, inganno, influenza, manipolazione e violazione, in un termine moderno: Intelligence.

I romani definivano l’opera delle spie come l’intus-legere; leggere dentro, ad una storia, come in questo caso, ad un fenomeno, ad un evento, ad un comportamento, agli occhi del proprio interlocutore. Leggere dentro, oltre a ciò che è manifesto in superficie, riuscire a cogliere le dinamiche più profonde e nascoste, anche andando a rubare informazioni in modo fraudolento o finanche violento. E se, dunque, da un lato attraverso l’intelligence si ricerca la verità, per trarne vantaggio, dall’altro si lavora per nasconderla, per non trarne svantaggio.
Se per cercarla, come dicevamo, si può attivare ogni mezzo, dalla menzogna alla suggestione, dalla frode alla vera e propria violenza, gli stessi meccanismi possono essere usati per celare qualcosa: butto giù da un ponte il testimone di uno scomodo affare tanto quanto il raccontare frottole, farlo con così tanta tenacia e convinzione fintanto che le balle diventano per i più granitiche verità. In questa logica, è evidente come tutto sia permesso.
Nell’ambito di questo esame dell’azione d’Intelligence scarsamente politically correct è bene precisare come essa, in una società competitiva, sia uno strumento essenziale per la prosperità e l’autodeterminazione degli Stati. Certamente la narrazione contemporanea di una Intelligence descritta come una sorta di super-polizia non corrisponde alla reale consistenza dello strumento. Se dunque essa è necessaria, e talvolta possa apparire decisamente brutale, è anche vero che non vi possa essere una governance orientata se priva di un simile assetto realmente funzionale. Per tale ragione, l’attività d’Intelligence per poter essere efficace deve esprimere una propria autonomia giudiziaria, attraverso specifiche attribuzioni e scriminanti, ed una propria morale, forte di una radicalizzazione statalista degli operatori, oltre che godere di una reale tutela del segreto, prima, durante e dopo le proprie azioni, anch’essa garantita da un impianto normativo orientato e metodi efficaci di trattamento, transazione e archiviazione delle informazioni.
In un simile quadro, non può essere certamente carente il controllo dell’esecutivo e del potere legislativo, attraverso strumenti giuridici adeguati ed adeguate figure di raccordo tra la politica e l’Intelligence medesima.
In questo scenario si dipana l’annosa questione machiavelliana del fine che giustifica i mezzi, decisamente ben assimilata dalle Nazioni dominanti che, pur ostentandola al proprio pubblico (pensiamo a film come Soldado, con Benicio Del Toro) non la incoraggiano nelle realtà satellite. Di qui una comunicazione politica mainstream che sfrutta tesi e antitesi, abilmente orchestrate nella costruzione di narrazioni di volta in volta dedite a specifici obiettivi ed interessi.
Da un lato viene giustificata ogni forma di brutalità per garantire la sicurezza nazionale, attraverso film, fiction, romanzi e discorsi politici, mentre dall’altro si promuove la solidarietà umana, l’uguaglianza e i cosiddetti diritti umani inalienabili dell’uomo. Ed è in questa schizofrenia di posizioni, ormai metabolizzate dalle masse occidentali, che si è evoluta l’arte della guerra e su cui fondano le proprie narrazioni la diplomazia e l’intelligence a seconda dei bisogni cui devono dar soddisfazione. Proprio secondo queste logiche viene imbastita, tanto ad Oriente quanto ad Occidente, la comunicazione dell’attuale conflitto russo-ucraino, costruendovi attorno quel consenso che è indispensabile per la governance dei molti da parte dei pochi, massa ed élite. Ecco che non c’è abilità d’Intelligence più utile al Potere di quella che gli crea attorno consensi, tanto più in tempi bui come guerre e carestie, un’abilità che richiede un impegno costante, nel lungo termine così da permettere verticalizzazioni mirate nel breve termine.
Parte 2: La progressiva ibridazione dei conflitti e il superamento delle virtù militari.
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