Antonio Capobianco : 15 Giugno 2025 10:03
Festeggiamo l’hardware mentre il mondo costruisce cervelli. L’AI non si misura a FLOPS.
Recentemente ho letto un articolo su Il Sole 24 Ore dal titolo: “Supercomputer, l’Europa accorcia il divario con gli Stati Uniti. Tre nuovi italiani in Top 500”. Una notizia apparentemente positiva, che celebra l’ingresso di tre nuovi supercomputer italiani nella classifica TOP500: Pitagora‑CPU (Cineca), SpaceHPC (ESA Italia) e Cresco8 (ENEA). A completare il quadro, il supercomputer JUPITER, installato in Germania, ha conquistato addirittura il quarto posto mondiale.
Tutto bello? Non proprio. Perché questa narrazione è profondamente fuorviante, e ci fa più male che bene.
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«Il cyberbullismo è una delle minacce più insidiose e silenziose che colpiscono i nostri ragazzi. Non si tratta di semplici "bravate online", ma di veri e propri atti di violenza digitale, capaci di lasciare ferite profonde e spesso irreversibili nell’animo delle vittime. Non possiamo più permetterci di chiudere gli occhi».
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La classifica TOP500 misura esclusivamente la potenza di calcolo grezza (in FLOPS). Non ha nulla a che vedere con la leadership nell’intelligenza artificiale, né tanto meno con la capacità di una nazione di sviluppare veri modelli AI generativi o foundation models. È come valutare una startup dal numero di server, ignorando completamente se abbia un prodotto utile.
Oggi l’AI che conta, quella usata da milioni di persone nel mondo, arriva dagli Stati Uniti. Parliamo di colossi come OpenAI (ChatGPT), Anthropic (Claude), Google (Gemini), Meta (LLaMA), xAI (Grok). L’Europa è completamente assente da questo panorama. L’unica eccezione degna di nota è Mistral AI, che produce ottimi modelli open-source, ma che al momento non può competere ad armi pari con i giganti americani.
Eppure, ogni volta che un supercomputer europeo entra nella TOP500, ci auto-convinciamo di essere all’altezza. La realtà è ben diversa: abbiamo l’hardware, ma non sappiamo cosa farcene per l’AI moderna. I supercomputer europei servono per simulazioni scientifiche, meteorologia, calcolo molecolare. Non per addestrare il prossimo modello linguistico multimodale.
Nel frattempo, negli Stati Uniti si discute se superare il vincolo sull’uso di dati protetti da copyright per addestrare i modelli AI. Perché? Perché in Cina questi limiti non esistono, e gli USA rischiano di perdere terreno competitivo se non accelerano. La consapevolezza americana è semplice: nell’AI di oggi vince chi ha dati, calcolo e libertà di sperimentazione.
E cosa fa l’Europa? Invece di innovare, norma. Invece di costruire modelli, scrive regolamenti. Ecco il paradosso: gli Stati Uniti creano, la Cina copiava (ora crea anche lei), e l’Europa legifera. È il classico errore da potenza in declino: cercare controllo dove servirebbe visione.
Il nostro errore più grave è culturale. Scambiamo infrastruttura per innovazione. Ma la potenza di calcolo da sola è un corpo senza cervello. Mancano dataset realmente utilizzabili, infrastrutture software su scala, modelli all’avanguardia, accesso al capitale di rischio, e soprattutto un ecosistema libero e aggressivo, come quello americano.
Se l’Europa vuole davvero contare qualcosa nel futuro dell’AI, deve smettere di celebrarsi per l’hardware e iniziare a costruire modelli, strumenti, API, piattaforme. Serve pensare come costruttori di infrastruttura cognitiva, non come amministratori di centri di calcolo.
Fino a quando continueremo a darci pacche sulle spalle per l’ingresso in una classifica tecnica, mentre altre nazioni definiscono il futuro dell’intelligenza, resteremo esattamente dove siamo: ai margini dell’innovazione.
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