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Regolamento chatcontrol: verso un’insostenibile sorveglianza di massa? La voce agli attivisti di Privacy Pride.

Stefano Gazzella : 2 Ottobre 2023 11:39

Il 23 settembre alcune città italiane sono state teatro di una manifestazione da parte degli attivisti di Privacy Pride che hanno organizzato dei sit-in a Roma, Milano, Venezia, Torino e Genova contro la proposta del c.d. Regolamento europeo “chatcontrol”.

Tale proposta legislativa vorrebbe fissare una deroga al generale divieto di svolgere attività di sorveglianza di massa nei confronti degli utenti dei servizi online previsto all’interno della Direttiva ePrivacy in nome di una (invero, tutt’ora indimostrata) maggiore sicurezza online per i minori e della lotta alla pedopornografia online con l’intento di contrastare la diffusione del c.d. Child Sexual Abuse Material (CSAM). Indichiamo anche il testo che è stato pubblicato dal Parlamento Europeo, con la possibilità di consultare anche l’iter di avanzamento, in modo tale che ciascun lettore possa consultare direttamente la fonte.

I membri del comitato promotore dell’iniziativa di Privacy Pride si sono resi disponibili a rilasciare un’intervista a riguardo, per offrire chiarimenti.

PrivacyPride ha organizzato, nel tempo, una serie di attività per sensibilizzare i cittadini sul controllo di massa. Da ultima la manifestazione della scorsa settimana. Chi ve lo fa fare?

macfranc: Ciao Stefano, la risposta a questa domanda è alla base del Privacy Pride. Siamo attivisti digitali, amanti della privacy, abbiamo orientamenti politici diversi e in passato abbiamo preso parte a manifestazioni di piazza su questioni diverse e distanti dalla privacy o dai temi digitali, ma non abbiamo mai organizzato nulla prima del primo Privacy Pride del 2021 (quello contro il DL Capienze che limitava i poteri del Garante Privacy) e di quello appena concluso (contro il Regolamento CSA, in corso di approvazione il prossimo ottobre, che intercetterà di fatto tutti i messaggi di tutti i cittadini europei nel silenzio dei media e della politica). Ci siamo quindi resi conto che in Italia nessuna forza parlamentare e nessuna associazione per i diritti umani (spesso quelle italiane semplicemente ignorano quanto la privacy sia la base giuridica delle loro stesse conquiste) stava prendendo posizioni contro l’attacco alla privacy dei cittadini da parte dei governi; a questo punto non potevamo aspettare, ma dovevamo fare qualcosa noi: a farcelo fare era la nostra coscienza, intesa sia come consapevolezza del problema sia come senso di responsabilità umana e civile.

amreo: Chi ce lo fa fare? Nessuno, al di fuori del mio spirito di attivista o di colui che vuole migliorare il proprio mondo, in particolare per quanto riguarda i diritti digitali e l’ambiente. Fin da quando avevo 16 anni faccio parte di un’associazione locale, il BGLUG per intenderci, che da sempre si occupa di promuovere il software libero. Tre anni fa, in periodo covid, mi sono unito anche ad Etica Digitale, Italian Linux Society, FSF e FSFE, e da qualche anno ad una lista civica giovanile locale. Tendo ad impegnarmi a raggiungere degli obiettivi in grado di migliorare la mia comunità anche se spesso con scarso successo.

qyd0ro: la Manifestazione contro il cosiddetto “Chat Control” è stata subito sentita da tuttɜ come necessaria. L’allegoria del Leviatano di Hobbes ha da sempre segnato profondamente la cultura delle forze dell’ordine nel mondo occidentale (il Regolamento CSA è infatti sostenuto da molte realtà di polizia europee): spesso si crede che l’unico “vero” modo di arginare fenomeni criminali – come, in questo caso, la diffusione di materiale pornografico legato all’infanzia – nel Web, sia limitare la libertà dei privati cittadini; questo, nonostante lɜ espertɜ si siano ampiamente espressɜ sull’assurdità e la pericolosità di questo tipo di provvedimenti.
Difatti: non solo questo modus operandi porta ad un fallimento effettivo nella risoluzione del problema in oggetto, ma forse, il problema ancor più vicino alla nostra sensibilità, è che spesso vengono ignorate – quando in assenza di finalità altre, ben inteso – le conseguenze disastrose e i danni ingenti(!) che scelte di questo tipo producono a livello sistemico nel tessuto sociale (sia per quanto riguarda la comunità, sia nello spazio privato)!

Andiamo dritti al punto: qual è il problema di chatcontrol?

amreo: Il problema di chat control è che semplicemente si tratta di una misura inadeguata a risolvere il problema e con troppe controindicazioni, ad esempio a causa dell’assenza di dibattito scientifico, la sproporzionalità, gli eccessivi rischi di falsi positivi e che si inserisce in una cornice di profonda analfabetismo digitale dei nostri regolatori.

macfranc: sono d’accordo con amreo. Trovo inoltre odiosa sia l’impostazione paternalistica del provvedimento, sia il fatto che stia per essere approvato senza il coinvolgimento dei cittadini, a causa dell’abnorme silenzio mediatico, e senza che si siano chiarite le immense pressioni di carattere economico verso la politica, perché la scansione dei messaggi costituisce un business ricchissimo. A proposito: qualcuno ha sentito parlare della recentissima inchiesta bomba sulle lobby dietro chatcontrol, curata dall’italianissimo Giacomo Zandonini, ma pubblicata in inglese su Inside Balkan e ripubblicata su tutti i giornali d’Europa?

Secondo voi come mai tale problema in Italia non viene diffusamente percepito?

macfranc: In generale in Italia la privacy non è un diritto che ci siamo abituati a conquistare dal basso, ma ci è stato spesso “regalato” grazie all’iniziativa dei padri costituenti (l’art. 15 è il dono di chi ha vissuto sulla propria pelle il potere di uno stato pervasivo come quello fascista), di alcuni intellettuali illuminati come Stefano Rodotà (fautori di una normativa italiana sulla privacy all’avanguardia nel mondo) e di un’Europa che con la direttiva e-privacy e il GDPR è stata a lungo un faro di civiltà. A questo si aggiunge il fatto che i nostri politici hanno spesso individuato nella privacy un capro espiatorio cui attribuire il nostro declino (salvo quando si parla di intercettazioni contro di loro o di riprese video-fotografiche che li ritraggono in compagnia di personaggi discutibili); inoltre il cittadino è stremato da una PA che da una parte usa le limitazioni della “privacy” per negargli diritti e servizi, dall’altra, come nel caso delle piattaforme cloud della scuola, finge in maniera talvolta grottesca di ignorare il GDPR quando si tratta di tutelare gli studenti! Questo atteggiamento crea macerie sulla consapevolezza che la privacy è un diritto umano irrinunciabile per una sana democrazia.

amreo: Il problema principale secondo me è a causa della profondo analfabetismo digitale generalizzato in (quasi) tutta la popolazione italiana in quanto i legislatori hanno creduto al mito dei nativi digitali. Inoltre la privacy come la libertà di parola è un diritto abbastanza astratto in cui ci si accorge quando non c’è.

Quali feedback avete ricevuto per l’iniziativa?

Alessandra: l’iniziativa ha avuto una buona riuscita, l’afflusso è stato interessante, con tante persone presenti. A Torino per esempio sono intervenuti attivisti da tutta la regione, c’erano ragazzi dei Linux Users Group e abbiamo avuto personalità note nell’attivismo per i diritti digitali come Vittorio Bertola a Torino. Ho saputo che a Roma sono stati presenti anche due politici che si sono già occupati di privacy e tecnologia: l’ex senatrice Maria Laura Mantovani e il senatore Filippo Sensi. Inoltre abbiamo ricevuto un videomessaggio da parte dell’europarlamentare Patrick Breyer del Partito Pirata Europeo, tra i più attivi oppositori del provvedimento chatcontrol. Ma oltre ai riscontri positivi, sono importanti anche quelli negativi: infatti è vero che tantissimi passanti erano poco convinti perché non avevano mai sentito parlare di questo regolamento e, quando si fermavano, o non riuscivano a credere a ciò che dicevamo oppure erano a dir poco indignati per questo regolamento; ma quante persone siamo riusciti a informare sull’esistenza di questo regolamento? La risposta è spietata: troppo pochi!

Ho notato un assordante silenzio di molti “esperti” del digitale. Secondo voi qual è il motivo?

macfranc: in primo luogo l’argomento è scabroso e chi si oppone a chatcontrol rischia di essere accusato di complicità con i pedofili. C’è anche da dire che secondo me alcuni esperti del digitale che promuovono campagne meritorie a favore dell’educazione digitale e della sicurezza informatica o contro il bullismo online, la disinformazione e il revenge porn, si trovano nella scomoda situazione di essere spesso sostenuti e finanziati dalle stesse società che vedono in chatcontrol un’occasione per vendere quelle stesse tecnologie di analisi dei contenuti attraverso l’intelligenza artificiale e gli algoritmi per il riconoscimento di schemi. Opporsi frontalmente a chatcontrol potrebbe mettere a rischio la sostenibilità finanziaria di tanti progetti importanti portati avanti con passione e sincero coinvolgimento.

amreo: secondo me è dovuto al fatto che semplicemente non ne sono a conoscenza dell’iniziativa della commissione europea, oppure sono ignorati dai media infatti non se ne parla neppure genericamente.

Pietro: più che il silenzio degli esperti del digitale preoccupa il silenzio di esperti e giuristi in tema di protezione dei dati personali, più genericamente chiamata privacy. Il controllo generalizzato delle comunicazioni digitali dovrebbe essere in prima battuta analizzato dal punto di vista dei diritti dei cittadini, ed è evidente che quanto sinora proposto fa propendere la bilancia verso una perdita di diritti, piuttosto che verso un aumento degli stessi. Abbiamo assistito recentemente a prese di posizioni piuttosto nette di un discreto numero di giuristi italiani sulle battaglie degli attivisti italiani in tema di privacy nella PA e, in particolare nelle scuole. Senza entrare nel merito di chi avesse torto o ragione, comunque c’è stato una esposizione pubblica e una copertura mediatica piuttosto diffusa, da parte di entrambi gli schieramenti. Il motivo per cui la proposta cosidetta Chatcontrol non riscuote curiosità o voglia di schierarsi pubblicamente a favore o contro, da parte dei giuristi, dovrebbe essere chiesto a loro.

Si parla tanto di analfabetismo digitale, da cui deriva poca consapevolezza dei problemi. Ma ben poco si fa. Voi avete dei suggerimenti a riguardo?

prof. Enrico Nardelli: Il vero problema, più che l’analfabetismo digitale è l’analfabetismo informatico. La distinzione tra competenze digitali e competenze informatiche non va considerata una mera questione accademica. È la stessa differenza che passa tra saper usare gli strumenti e conoscere i princìpi scientifici che ne sono alla base: è il fulcro del problema. Vale per la matematica e le altre scienze e vale anche per l’informatica. Negli ultimi venti anni, sia in Europa che in Italia, ci si è focalizzati solo sulle competenze operative del digitale, il sapere usare strumenti di produttività individuale (elaboratore di testi, foglio elettronico) o strumenti di comunicazione (la posta elettronica, le reti sociali, i motori di ricerca). Ma questa competenze – anche se comunque utili – non portano alla piena consapevolezza delle problematiche sottostanti, che possono essere affrontate solo inserendo nella scuola lo studio dell’informatica come disciplina scientifica e l’educazione al suo impatto sulla società. Così come una vera coscienza dei problemi posti da uno sviluppo industriale sfrenato si deve basare sulla conoscenza dei princìpi della fisica, della biologia e della chimica, per quanto riguarda il mondo digitale e i processi di trasformazione digitale di cui tanto si parla è necessaria la diffusione dell’insegnamento dell’informatica nella scuola. Anche la Commissione Europea ha finalmente capito che è necessario andare in questa direzione ed ha pubblicato ad Aprile 2023 una proposta di Raccomandazione del Consiglio d’Europa, COM(2023) 206 final, che ricorda, tra l’altro, che «A prescindere dalle scelte curricolari, è necessario promuovere un’istruzione di qualità nell’informatica, coadiuvata da metodi di insegnamento idonei all’età e alla fase di sviluppo…» e raccomanda gli Stati Membri, tra le altre cose di: «4. sostenere un’istruzione di alta qualità in informatica a scuola», indicando in particolare che gli Stati Membri dovrebbero: «4.2 fin dall’inizio dell’istruzione obbligatoria, garantire che tutti gli studenti abbiano l’opportunità di sviluppare le competenze digitali attraverso l’esposizione agli elementi fondamentali dell’informatica», «4.3 prendere in considerazione la possibilità di introdurre l’informatica come materia distinta», «4.4 provvedere affinché l’insegnamento e l’apprendimento dell’informatica siano sostenuti da docenti qualificati e specializzati, con facile accesso a risorse didattiche di qualità». Il Laboratorio “Informatica e Scuola” del CINI è attivo da 10 anni, nell’ambito di un protocollo d’intesa col Ministero dell’Istruzione, per portare in tutte le scuole, attraverso il progetto Programma il Futuro (https://programmailfuturo.it), una prima conoscenza dei princìpi di base dell’informatica. Nel corso del mese di Ottobre svolgeremo il primo convegno nazionale sulla didattica dell’informatica (ITADINFO – https://itadinfo.it) e qualche giorno dopo all’Accademia dei Lincei si terrà un importante convegno dal tema ““L’insegnamento dell’Informatica nella scuola: Criticità, Esperienze, Progettualità”, che vedrà – alla presenza del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara – svilupparsi un dibattito tra i maggiori esperti di didattica dell’Informatica nel nostro Paese e l’intervento di qualificati esperti internazionali.

Stefano Gazzella
Privacy Officer e Data Protection Officer, specializzato in advisoring legale per la compliance dei processi in ambito ICT Law. Formatore e trainer per la data protection e la gestione della sicurezza delle informazioni nelle organizzazioni, pone attenzione alle tematiche relative all’ingegneria sociale. Giornalista pubblicista, fa divulgazione su temi collegati a diritti di quarta generazione, nuove tecnologie e sicurezza delle informazioni.