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La Diffusione Illecita di Immagini Intime: Una Minaccia alla Libertà Femminile

La Diffusione Illecita di Immagini Intime: Una Minaccia alla Libertà Femminile

Paolo Galdieri : 10 Novembre 2025 15:14

Questo è il quarto di una serie di articoli dedicati all’analisi della violenza di genere nel contesto digitale, in attesa del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne. Il focus qui è sulla diffusione non consensuale di immagini intime e le sue implicazioni legali e sociali.

La diffusione non consensuale di immagini intime, nota come revenge porn, è una delle manifestazioni più insidiose e pervasive della Violenza di Genere Online (VGO). Nel dibattito legale e criminologico, si preferisce la denominazione più neutra di Non-Consensual Sharing of Intimate Images (NCII) per riconoscerlo pienamente come un atto di sopraffazione e un meccanismo di controllo a matrice prevalentemente maschile. Sebbene l’NCII possa colpire chiunque, i dati statistici indicano chiaramente una fortissima prevalenza femminile tra le vittime, confermando che questo reato è un sintomo digitale della violenza strutturale di genere.

L’ Art. 612-ter e la sua ratio

Le cronache riportano sempre più frequentemente notizie riguardanti la pubblicazione non autorizzata, sul web, di foto o video intimi ed espliciti, a scopo di vendetta. Fino al 2019, in assenza di una norma specifica, condotte di questo tipo venivano spesso qualificate ai sensi dell’Art. 595, comma 3, c.p. (diffamazione aggravata), in quanto arrecate con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. Tale disposizione, tuttavia, non era sufficiente ad arginare il fenomeno, poiché la condotta, pur non essendo nella maggior parte dei casi legata a un profitto, era più assimilabile a una forma di estorsione emotiva e morale. Ciò che rendeva tale comportamento ancora più odioso era il fatto che il “ricatto” riguardava la sfera sessuale dell’individuo, portandolo, talvolta, al compimento di gesti estremi.


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Il fenomeno trova ora riconoscimento giuridico attraverso l’introduzione dell’articolo 612-ter c.p. (Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti), inquadrato nel cosiddetto Codice Rosso (Legge 69/2019). La sua collocazione sistematica all’interno dei delitti contro la libertà morale conferma la sua natura di reato legato alla sopraffazione, dove la lesione della riservatezza del dato intimo è strumentale a un’aggressione più profonda alla dignità e alla libertà di autodeterminazione della vittima.

Attraverso il primo comma dell’Art. 612-ter c.p., si punisce, salvo che il fatto costituisca più grave reato (clausola di sussidiarietà, rilevante ad esempio nei rapporti con la pornografia minorile ex Art. 600-ter c.p.), chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza consenso delle persone rappresentate.

L’analisi della giurisprudenza di legittimità ha progressivamente definito gli elementi costitutivi di questo reato, fornendo chiarezza interpretativa essenziale per l’attività giudiziaria. La Corte di Cassazione ha chiarito che il contenuto deve essere “sessualmente esplicito”, e non è limitato alla ripresa di atti sessuali completi o organi genitali, ma può riguardare anche altre parti erogene del corpo, come i seni o i glutei, se mostrate nude o in un contesto tale da evocare chiaramente la sessualità (Cass., Sez. V, sent. n. 14927/23). Un altro requisito fondamentale è che il materiale fosse “destinato a rimanere privato”. Su questo punto, la giurisprudenza ha escluso l’applicabilità del reato quando le immagini non erano destinate a una sfera privata, come nel caso di un atto sessuale ripreso in un bagno pubblico di una discoteca (Tribunale di Reggio Emilia, Sez. GIP/GUP, sent. n. 528/2021). Dalla mia esperienza nei procedimenti penali, è cruciale sottolineare che il consenso iniziale alla creazione o a una condivisione ristretta del materiale è irrilevante di fronte all’atto di diffusione successiva e non autorizzata. Questa interpretazione smantella efficacemente le classiche argomentazioni difensive basate sul presunto “consenso implicito” della vittima, ponendo l’accento sulla violazione della libertà di autodeterminazione attuale.

Il secondo comma estende la punibilità anche al cosiddetto diffusore secondario, ovvero chi riceve o acquisisce il materiale e lo diffonde a sua volta. Questo passaggio è significativo: non punisce una diffusione meramente accidentale, ma colpisce chi sceglie consapevolmente di amplificare l’offesa, in quanto è richiesto il dolo specifico di recare nocumento (nel caso di specie, rappresentato dalla volontà di minarne la reputazione aggredendone la moralità – Cass., Sez. V, sent. n. 14927/23). Come avvocato, ho potuto osservare in molti procedimenti come questa condotta si inserisca in un quadro più ampio di controllo coercitivo post-separazione, trasformando la diffusione illecita in uno strumento di vera e propria persecuzione.

Il terzo comma prevede che la pena sia aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, oppure se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. Sicuramente saggia è la scelta di punire in forma aggravata il delitto se perpetrato attraverso la rete, considerata che questa è la forma di revenge porn più frequente e per la quale si chiedeva maggiore tutela. Il comma 4, invece, determina un aumento di pena se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di infermità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza.

L’Art. 612-ter c.p. è riconosciuto come un reato plurioffensivo. Nonostante sia collocato tra i delitti che ledono la libertà morale, incide su più sfere giuridiche:

  1. libertà morale e privacy;
  2. sfera sessuale della vittima (a causa del carattere esplicito dei materiali).

Questo riconoscimento è essenziale per la quantificazione del risarcimento civile, poiché non si tratta di un mero danno alla reputazione astratta, ma di un attacco che configura un grave danno non patrimoniale, impattando sull’integrità identitaria e l’autonomia sessuale della persona.

Il reato è istantaneo e si consuma con il primo invio dei contenuti sessualmente espliciti (Cass., Sez. V, sent. n. 14927/23). Analogamente al reato di stalking, il termine per la proposizione della querela è di 6 mesi e la remissione di querela può essere soltanto processuale.

Infine, la Corte di Cassazione ha definitivamente chiarito che il revenge porn costituisce un reato autonomo e non è assorbito dagli atti persecutori (stalking), ma è plausibile il concorso formale tra l’Art. 612-bis e l’Art. 612-ter c.p., considerando che i beni giuridici protetti dalle rispettive norme incriminatrici non risultano totalmente sovrapponibili.

In sede processuale, l’onere per la vittima non è banale. La raccolta delle prove digitali relative alla diffusione è un momento cruciale: per l’ammissibilità in Tribunale, è indispensabile che il materiale (immagini, chat, pagine web) sia raccolto in modo inalterabile, autentico e conforme alle best practice della Digital Forensics. Nel mio duplice ruolo di avvocato e docente, riscontro che in molti casi, l’assenza di standard forensi rigorosi ha purtroppo portato all’esclusione della prova, negando la giustizia a causa di un difetto tecnico nell’acquisizione dei dati e perpetuando una vittimizzazione processuale.

La sfida dei deepfakes e l’evoluzione normativa

Il panorama del revenge porn è stato rapidamente trasformato dall’avanzamento dei sistemi di Intelligenza Artificiale (IA) generativa, che consentono la creazione e diffusione di contenuti multimediali alterati o falsificati (deepfakes).

L’ordinamento italiano ha risposto a questa sfida con il nuovo reato di Manipolazione artificiale di immagini e video (Art. 612-quater c.p.), introdotto con la Legge 132/2025. Questa norma colma una lacuna: il 612-ter, infatti, richiedeva che le immagini fossero state “realizzate o sottratte” e “destinate a rimanere private”, requisiti che non si applicavano a un deepfake, un’immagine mai realmente esistente.

Il nuovo Art. 612-quater punisce specificamente la diffusione lesiva di contenuti generati o alterati con IA, assicurando che l’abuso sessuale virtuale non trovi immunità e rafforzando l’attenzione del sistema legale sulla dignità sessuale e la libertà morale della persona.

La gravità del fenomeno è costantemente confermata da casi di cronaca che coinvolgono l’uso sistematico dell’IA per creare contenuti sessualmente espliciti non consensuali a danno di donne in ruoli pubblici. Piattaforme, come i forum che utilizzano tecnologie “AI undress anybody,” sono state individuate per aver diffuso decine di scatti manipolati digitalmente che ritraggono conduttrici, cantanti, attrici e politiche.

Questi siti operano spesso in spazi non controllati, come forum con milioni di utenti e sezioni dedicate a personaggi noti, dove l’iscrizione richiede solo l’autodichiarazione di maggiore età. Nonostante l’amarezza per la violazione subita, alcune vittime hanno denunciato pubblicamente l’atto come “una violenza e un abuso che marchia la dignità”.

L’atto di “spogliare” virtualmente un volto e un corpo, senza consenso, è stato definito,giustamente, come uno “stupro virtuale”, sottolineando che grazie alla nuova legge (Art. 612-quater c.p.), chi violenta con un clic è ora un criminale punibile con pene assai severe.

Strumenti di tutela e la necessità di un cambio di prospettiva

Il contrasto al revenge porn si basa su un doppio livello di intervento: l’azione penale (repressiva) e l’azione amministrativa d’urgenza.

Un pilastro fondamentale per la prevenzione e la rimozione rapida è l’intervento del Garante per la protezione dei dati personali, previsto dall’Art. 144-bis del Codice Privacy. Questa procedura consente alla vittima di presentare una segnalazione urgente. Il Garante adotta un provvedimento entro quarantotto ore per contenere la diffusione potenziale. Il blocco avviene attraverso l’impronta hash, un codice univoco che consente alle piattaforme di identificare e bloccare automaticamente qualsiasi tentativo futuro di ricaricare lo stesso file, garantendo una protezione continua contro la viralità.

Nonostante la robustezza del quadro normativo, l’aumento esponenziale dei reati registrati indica che la norma repressiva non basta. Il problema non è solo legale, ma profondamente culturale, alimentato dalla vittimizzazione secondaria (Victim Blaming): l’atto di colpevolizzare la vittima per aver acconsentito alla produzione del materiale.

Per trasformare le leggi in una tutela effettiva, come sostengo nel mio lavoro accademico e professionale, è necessario un impegno strategico che comprenda:

  • formazione specialistica per il sistema giudiziario, per affrontare il trauma specifico indotto dal revenge porn e contrastare la vittimizzazione secondaria;
  • prevenzione educativa digitale e affettiva nelle scuole, per affrontare il tema del consenso e decostruire gli stereotipi di genere;
  • supporto multidisciplinare integrato, che affianchi l’azione d’urgenza del Garante e le indagini con servizi psicologici e legali per il recupero dal grave danno psico-fisico.

L’efficacia finale del contrasto risiede nel superare il divario tra la sofisticazione delle leggi e l’arretratezza culturale, garantendo che la dignità sessuale e la libertà morale delle persone, soprattutto delle donne, siano protette con la stessa velocità con cui un’immagine può diventare virale.

Immagine del sitoPaolo Galdieri
Avvocato penalista e cassazionista, noto anche come docente di Diritto Penale dell'Informatica, ha rivestito ruoli chiave nell'ambito accademico, tra cui il coordinamento didattico di un Master di II Livello presso La Sapienza di Roma e incarichi di insegnamento in varie università italiane. E' autore di oltre cento pubblicazioni sul diritto penale informatico e ha partecipato a importanti conferenze internazionali come rappresentante sul tema della cyber-criminalità. Inoltre, ha collaborato con enti e trasmissioni televisive, apportando il suo esperto contributo sulla criminalità informatica.

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