Paolo Galdieri : 23 Agosto 2025 09:19
La recente vicenda del gruppo Facebook “Mia Moglie”, attivo dal 2019 e popolato da oltre 32.000 iscritti, mette in luce una dinamica che intreccia violazione della privacy, pornografia non consensuale, misoginia sistemica e gravi interrogativi sul ruolo delle piattaforme digitali. In questo spazio gli utenti hanno condiviso fotografie di donne senza il loro consenso, spesso immagini rubate dalla vita quotidiana o scatti privati destinati esclusivamente a un partner, talvolta accompagnandole con commenti violenti ed esplicitamente sessisti.
Questi comportamenti non possono essere liquidati come goliardia online. Siamo di fronte a condotte che ledono la dignità delle persone coinvolte e che hanno una precisa rilevanza giuridica. Il reato di cosiddetto revenge porn si configurerebbe solo qualora fossero diffuse immagini intime o sessualmente esplicite senza il consenso della persona ritratta. Anche nel caso di immagini apparentemente innocue, come una foto in costume o un selfie domestico, la loro diffusione senza autorizzazione rimane comunque una violazione della riservatezza e un atto idoneo a produrre conseguenze devastanti sul piano personale e sociale.
Il cuore della questione riguarda il ruolo delle piattaforme che ospitano gruppi e contenuti di questo tipo. In Europa, il principio consolidato fino all’entrata in vigore del Digital Services Act era quello della limitata responsabilità degli hosting provider, i quali non possono essere gravati da un obbligo generale di sorveglianza preventiva sui contenuti caricati dagli utenti. Questa impostazione aveva lo scopo di salvaguardare la libertà di espressione e di evitare che gli intermediari si trasformassero in giudici privati del lecito e dell’illecito.
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Tuttavia, il caso “Mia Moglie” mostra quanto sia problematico mantenere una visione di assoluta neutralità delle piattaforme. Colossi come Meta non sono semplici strumenti tecnici di trasmissione di dati, ma veri e propri protagonisti dell’ecosistema informativo globale. Il loro potere economico e la loro capacità di influenzare il dibattito pubblico rendono difficile immaginare che possano limitarsi a un ruolo passivo. L’assenza di un’assunzione di responsabilità, anche solo proporzionata alla loro forza di mercato, si traduce in una sostanziale impunità rispetto agli effetti collaterali che i loro stessi servizi generano.
Il caso dimostra anche le barriere intrinseche agli strumenti tecnologici di moderazione. Gli algoritmi di riconoscimento basati sull’intelligenza artificiale riescono a rilevare nudità esplicite e pornografia manifesta, ma non hanno la capacità di comprendere il contesto.
Una fotografia di una donna in spiaggia può sembrare un contenuto innocuo se analizzata da un software, mentre in realtà può costituire un episodio di diffusione abusiva e lesiva della riservatezza. Analogamente, i sistemi automatici faticano a distinguere tra un commento ironico e un’istigazione alla violenza. Ciò che per una macchina appare come linguaggio neutro può essere, per l’essere umano che legge, un messaggio gravemente minaccioso o degradante.
Questo limite tecnico è strutturale e non eliminabile, perché nessuna intelligenza artificiale può stabilire se un contenuto sia stato condiviso con il consenso della persona ritratta.
Per questo motivo, affidarsi unicamente ad algoritmi e sistemi automatizzati significa accettare inevitabili zone d’ombra e lasciare che molte violazioni restino invisibili. Una moderazione efficace non può prescindere dal contributo umano, da procedure di verifica affidabili e da un chiaro quadro giuridico che assegni compiti e responsabilità.
Il dibattito non può essere ridotto a un’alternativa secca tra piattaforme totalmente irresponsabili e piattaforme trasformate in tribunali privati del web. La prospettiva più ragionevole consiste in un bilanciamento tra libertà di espressione e tutela dei diritti fondamentali.
Alcuni strumenti già individuati a livello normativo possono costituire un punto di partenza. Tra questi vi sono obblighi di trasparenza sulle politiche di moderazione, procedure di segnalazione semplici e rapide che consentano agli utenti di ottenere in tempi certi la rimozione dei contenuti abusivi, sistemi di auditing indipendenti per monitorare l’efficacia dei controlli e un principio di responsabilità graduata che tenga conto delle dimensioni economiche e del potere effettivo della piattaforma.
In questa prospettiva, non avrebbe senso imporre gli stessi oneri a una piccola realtà digitale e a un gigante globale come Meta o X. Tuttavia, ignorare il ruolo di chi trae profitti miliardari dalla condivisione di contenuti significherebbe rinunciare a uno degli strumenti più incisivi di prevenzione e contrasto della violenza online.
Verso una nuova cultura della responsabilità digitale
Il caso “Mia Moglie” ci restituisce l’immagine di un problema che non è soltanto giuridico, ma anche sociale e culturale. La violenza digitale non nasce negli algoritmi, ma nella mentalità di chi considera legittimo appropriarsi dell’intimità altrui per condividerla in spazi virtuali di complicità e voyeurismo.
La tecnologia può aiutare, ma non può sostituire una presa di coscienza collettiva. È necessario un approccio integrato che unisca il diritto penale e civile, l’assunzione di responsabilità delle piattaforme, la formazione digitale e una nuova educazione al rispetto nelle relazioni di genere.
La rete non è un territorio separato e senza regole. È parte integrante della vita reale e, come tale, deve essere governata da principi di responsabilità e tutela della persona.
Finché i grandi attori economici continueranno a presentarsi come soggetti neutrali, ogni misura resterà parziale. Finché la cultura diffusa non comprenderà che la privacy è un diritto fondamentale e non un ostacolo, ogni progresso sarà fragile.
L’episodio del gruppo “Mia Moglie” ci ricorda che la sfida della responsabilità digitale è uno dei nodi centrali del nostro tempo. Una sfida che chiama in causa il diritto, la politica, la tecnologia e soprattutto la società civile.
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