
Paolo Galdieri : 1 Ottobre 2025 09:17
La recente operazione condotta dalla Polizia Postale di Catania, coordinata dalla Procura Distrettuale, rappresenta un ulteriore tassello nella complessa lotta alla pirateria audiovisiva. Non un episodio isolato, ma la prosecuzione di un filone investigativo inaugurato con “Gotha” (2022) e “Gotha 2” (2025), a cui si sono affiancate indagini come “Black out” e “Taken down”. L’impiego di oltre 200 investigatori in 18 città testimonia la dimensione nazionale del fenomeno e la sua natura di criminalità organizzata, ben lontana dalla figura romantica dell'”hacker solitario”.
Le accuse che emergono – associazione per delinquere transnazionale, accesso abusivo a sistemi informatici e frode informatica aggravata – non si esauriscono però nel momento dell’arresto. È nelle aule di giustizia che questo tipo di indagini trova il suo vero banco di prova. In questa fase emergono i nodi più complessi.La gestione di enormi quantità di dati digitali, la verifica della catena di custodia, la traduzione tecnica degli accertamenti in elementi probatori che possano essere compresi e valutati dal giudice.
Le indagini internazionali, spesso basate su server collocati all’estero, sollevano poi difficoltà di cooperazione giudiziaria e tempi incompatibili con l’esigenza di bloccare rapidamente il fenomeno. Non meno delicata è la distinzione tra l’utente finale e chi assume un ruolo consapevole e stabile nell’organizzazione.
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I processi, infine, sono caratterizzati da un’inevitabile complessità. La quantità di materiale sequestrato rallenta l’istruttoria, le questioni di qualificazione giuridica si moltiplicano e la difesa non manca di sollevare eccezioni sull’utilizzabilità delle prove digitali o sulla legittimità degli strumenti investigativi impiegati. È in questa dimensione operativa, fatta di ostacoli pratici e scelte interpretative, che si misura la reale difficoltà di contrastare la pirateria.
Le indagini dimostrano che il modello di business si fonda sulla ritrasmissione abusiva dei palinsesti delle principali piattaforme (Sky, DAZN, Netflix, Prime Video), resa possibile dall’uso di server collocati in Paesi esteri, spesso con normative più permissive. I ricavi sono impressionanti. Secondo l’operazione “Gotha”, il giro d’affari raggiungeva 10 milioni di euro al mese, mentre i mancati introiti per le pay-TV si aggiravano sui 30 milioni mensili.
La pirateria audiovisiva non è dunque solo una violazione di copyright, ma un’economia criminale organizzata e globalizzata, capace di erodere risorse fiscali e occupazionali al sistema Paese.
Le stime più aggiornate parlano chiaro poichè solonel 2024 la pirateria ha generato una perdita di 2,2 miliardi di euro di fatturato e un danno diretto al PIL di 904 milioni, con oltre 12.000 posti di lavoro a rischio.
Un dato paradossale è che la percentuale di utenti che praticano pirateria cala lievemente (dal 39% al 38%), ma il numero complessivo di atti rimane altissimo. Il fenomeno si concentra quindi su un nocciolo duro di utenti ad alta intensità, in particolare attratti dagli eventi sportivi live, i più redditizi.
Il fondamento normativo resta la Legge n. 633/1941 sul diritto d’autore, ma l’evoluzione tecnologica ha imposto interventi mirati. La Legge n. 93/2023 – nota come “legge anti-pezzotto” – ha introdotto strumenti inediti, tra cui la possibilità per AGCOM di ordinare il blocco in tempo reale (entro 30 minuti) dei siti illeciti.
Le pene previste sono severe: reclusione fino a 3 anni, multe fino a 15.493 euro e confisca dei beni. Ma la vera novità è la responsabilizzazione degli utenti in quanto anche la visione occasionale di contenuti pirata comporta sanzioni da 154 a 1.032 euro, mentre l’uso abituale può costare fino a 5.000 euro.
Nella prassi giudiziaria, i processi che seguono a queste indagini si presentano spesso complessi. Si deve dimostrare non solo la disponibilità tecnica dei contenuti, ma anche l’effettiva partecipazione degli imputati a un’organizzazione con finalità di lucro. Non di rado, la linea di confine tra l’utente finale e il collaboratore attivo della rete criminale diventa sottile, e i Tribunali si trovano a dover distinguere posizioni marginali da ruoli centrali.
Il Piracy Shield rappresenta un salto tecnologico, essendo un sistema automatizzato che obbliga i provider a bloccare i domini segnalati. Tuttavia, presenta criticità.
Il rischio di overblocking, con blocchi estesi a indirizzi IP condivisi con siti legittimi, può danneggiare imprese e utenti estranei. L’assenza di un controllo giudiziario preventivo solleva inoltre dubbi sulla trasparenza e sulla tutela dei diritti fondamentali. Infine, la concentrazione del potere di blocco in un unico sistema crea un potenziale punto debole per la sicurezza nazionale. In questo senso, la normativa anti-pirateria, pur rispondendo a esigenze legittime di tutela, apre scenari inediti di bilanciamento tra interessi economici e diritti costituzionali.
La pirateria non è solo criminalità, ma anche reazione a un mercato percepito come inefficiente. Prezzi elevati e la frammentazione dell’offerta spingono molti utenti a cercare alternative illegali.
Già circa trent’anni fa il mio Maestro, Vittorio Frosini – fondatore della disciplina universitaria dell’informatica giuridica – avvertiva che, se per il software contraffatto i reati erano indispensabili per colpire le organizzazioni, il vero deterrente restava il mercato. Prezzi equi, capaci di non far percepire all’utente un’ingiustizia nel costo del servizio. Parole che conservano intatta la loro attualità anche di fronte al fenomeno delle IPTV illegali.
Molti pirati, infatti, sono consumatori ibridi: pagano per alcuni servizi legali come Netflix o Prime Video, ma ricorrono a IPTV illegali per i contenuti ritenuti troppo costosi. Questo evidenzia come paradosso che le imperfezioni del mercato legale alimentano la domanda illegale.
Paolo Galdieri
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