Redazione RHC : 3 Giugno 2021 09:00
Autore: Roberto Capra
Data Pubblicazione: 31/05/2021
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Nell’articolo precedente si è brevemente parlato del rapporto tra la cyber warfare ed il diritto Internazionale ed Umanitario e di come quest’ultimo sia ancora troppo “antiquato” per poter gestire tale evoluzione bellica. Un’altra questione che si pone in tale ambito è la possibilità e la conseguente regolamentazione dell’utilizzo delle intelligenze artificiali.
L’introduzione di queste tecnologie in ambito militare, in realtà, è già avvenuta: per esempio possono essere utilizzate in macchinari a supporto di operazioni ad alto rischio, come il disinnesco di ordigni, oppure di armi per l’eliminazione di bersagli considerati particolarmente sensibili. I macchinari, tuttavia, sono sempre sotto lo stretto controllo di un operatore umano: di fatto sono delle versioni evolute di macchinari telecomandati, comunque dipendenti da personale in carne ed ossa che ne controlla l’operatività.
Il problema sull’utilizzo delle IA si pone allorché si pensi a Intelligenze di altissimo livello programmate per scopi bellici: già Stephen Hawking aveva ipotizzato che il loro problema non sarebbe stata la cattiveria, ma la troppa efficienza. Se questa affermazione può stupire (come può una cosa efficiente diventare un problema?), in realtà è solo una conseguenza dell’osservazione della realtà tecnica per come la conosciamo oggi.
L’essere umano può provare paura, rimorso, pietà. L’IA no. È un software programmato per eseguire un compito e lo farà fino a che l’hardware che lo sta facendo funzionare è in grado di farlo. L’unica cosa che può accomunare soldati e, per esempio, droni militari armati e interamente controllati dalle IA, è la possibilità di essere feriti\danneggiati o uccisi\abbattuti. Ma mentre l’essere umano potrebbe ritirarsi per una valutazione del campo, oppure interrompere le azioni a seguito di alcune reazioni di possibili civili presenti, l’IA probabilmente continuerà il suo compito.
L’altro problema legato all’uso delle IA è la loro programmazione: sono software e come tali lavorano su modelli. Potrebbero essere sufficienti delle variazioni rispetto a modelli standardizzati per trarre in inganno un sistema, generando quindi una reazione errata (in un esperimento, una tartaruga è stata scambiata per un fucile d’assalto). Vi è anche un ulteriore problema legato alla natura software delle IA: sono soggette ad attacchi informatici che – tra le altre cose – potrebbero disattivarle o anche alterarne gli obiettivi.
Inoltre, sarebbe necessario insegnare ai sistemi guidati da IA autonome, come distinguere i civili dai combattenti, onde evitare – specialmente in scenari di guerriglia urbana o comunque di combattimenti in zone abitate – azioni indiscriminate nei confronti di tutti i soggetti che si trovino nel raggio d’azione dell’IA in combattimento.
Allo stato dell’arte, non vi è alcuna norma internazionale che regoli l’eventuale utilizzo di IA autonome in scenari di guerra. L’unica clausola di salvaguardia è la c.d. “clausola Martens” ove si dichiara che – in assenza di specifiche regolamentazioni di guerra – sia le popolazioni che i belligeranti rimangono “sotto la salvaguardia e l’imperio del diritto delle genti”. Le norme internazionali prevedono, altresì, che l’impiego di armi e mezzi di guerra debba essere proporzionato al vantaggio militare cercato, anche con lo scopo di limitare i danni alle strutture ed alle popolazioni civili.
Proprio quest’ultima norma potrebbe costituire una barriera all’introduzione di IA avanzate ed autonome in scenari di guerra: queste potrebbero essere programmate per indirizzarsi autonomamente verso un dato obiettivo, senza però avere le istruzioni o – più semplicemente – le capacità di interrompere l’attacco in caso di modificazioni dello scenario previsto.
In tal senso è interessante citare un articolo apparso il 29 maggio 2021 sul New York Post. In esso viene citato un report del Panel di esperti sulla Libia del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che avrebbe riferito di un attacco da parte di un drone killer ad alta autonomia avvenuto nel marzo 2020 in Libia.
A differenza di altri droni ad uso militare, sembra che lo strumento in oggetto – imbottito di esplosivo e destinato ad un attacco kamikaze – non avesse alcuna necessità di connessione con un operatore umano per attaccare i suoi obiettivi. Se questa ricostruzione dei fatti venisse confermata, potremmo trovarci di fronte al primo attacco perpetrato da armi autonome nei confronti degli esseri umani. L’episodio ha avuto una discreta risonanza tra gli addetti ai lavori, tra cui l’analista e ricercatore Zachary Kallenborn che si è chiesto quanto fosse precisa la rilevazione degli obiettivi di questi strumenti e dell’entità del loro margine di errore.
Da questa breve panoramica è evidente come le armi autonome possano diventare degli armamenti ben più pericolosi rispetto a quelli conosciuti fino ad oggi. Proprio per questo è importante un’attenta analisi da parte degli esperti e dell’intera Comunità Internazionale sul loro eventuale sviluppo e sulla possibilità e\o i limiti da porre al loro utilizzo
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