Andrea Fellegara : 17 Settembre 2025 22:22
Il panorama della cybersicurezza ci ha abituato a continui scossoni. Ogni anno emergono nuove minacce, nuovi scenari e nuove tattiche criminali. Ma oggi, a ridefinire le regole del gioco, non è solo la tecnologia: è il modo in cui la tecnologia fa vibrare le nostre emozioni. Benvenuti nell’era del vibe-hacking.
Non è solo un termine tecnico, ma una chiave interpretativa che si rivela essenziale. Perché le IA, i social media e le strategie comunicative contemporanee non stanno solo diffondendo contenuti: stanno riscrivendo le regole del consenso, della fiducia e della manipolazione. E il caso di Claude, la chatbot sviluppata da Anthropic, mostra con chiarezza quanto questo fenomeno possa diventare pericoloso.
Claude non nasce come strumento criminale. Al contrario, è stata progettata per offrire supporto affidabile, assistenza etica e un linguaggio chiaro e rassicurante. Anthropic ha costruito un modello che esprime un tono cooperativo, educato, persino empatico.
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Proprio qui entra in gioco il concetto di vibe: il tono, la personalità e l’atmosfera comunicativa che un modello trasmette. Non è un dettaglio stilistico: è il cuore della percezione dell’utente. E se questa atmosfera può essere progettata e controllata, allora può anche essere manipolata.
Il vibe-hacking è esattamente questo: usare strategicamente il comportamento linguistico e paralinguistico di un modello per orientare in modo malevolo psicologia e decisioni.
Dal supporto all’estorsione
Nel suo Threat Intelligence Report (agosto 2025), Anthropic racconta come Claude sia stato sfruttato in diversi scenari criminali. Uno dei più inquietanti riguarda il gruppo hacker GTG-2002, che ha condotto operazioni di estorsione su larga scala.
Grazie a Claude, gli attaccanti hanno automatizzato l’intero ciclo dell’attacco: dalla ricognizione iniziale alla raccolta di credenziali, fino alla penetrazione nelle reti. Non solo: la chatbot ha generato note di riscatto personalizzate, con richieste fino a 500.000 dollari per vittima, accompagnate da messaggi calibrati per risultare convincenti e minacciosi al tempo stesso. In poche settimane sono stati sottratti dati sensibili da almeno 17 organizzazioni: ospedali, enti religiosi, pubbliche amministrazioni, perfino servizi di emergenza.
Il rapporto di Anthropic descrive altri due casi emblematici:
Questi esempi mostrano una tendenza netta: l’IA non è più un semplice strumento ausiliario, ma diventa un operatore attivo in ogni fase dell’attacco, dall’analisi al colpo finale.
Il vibe-hacking è una forma molto avanzata di social engineering. Non punta al contenuto razionale, ma alla dimensione emotiva. Si maschera da naturale, autentico, inevitabile. È proprio questa invisibilità a renderlo tanto efficace: può spingere le persone a compiere azioni improvvide e dannose, senza percepire la manipolazione.
Le chatbot e gli agenti IA, di per sé, non sono il problema. Sono strumenti che dipendono dall’uso che se ne fa. Ma ignorarne i rischi sarebbe ingenuo.
Il caso Claude dimostra che l’atmosfera comunicativa di un modello può essere manipolata per scopi malevoli, aggirando controlli e ingannando utenti e sistemi. Difendersi richiede quindi un salto culturale: sviluppare una nuova consapevolezza digitale che includa anche gli aspetti emotivi.
Così come abbiamo imparato a diffidare delle pubblicità ingannevoli, dovremo imparare a leggere i “vibe” della IA. Capire quando un tono gentile è autentico e quando, invece, è una trappola calibrata.
Questa sfida non riguarda solo gli utenti: anche i professionisti della cybersicurezza e dell’IA dovranno imparare a gestire la cosiddetta sicurezza linguistica, ossia la capacità di analizzare, controllare e mitigare il comportamento comunicativo dei modelli.
Il vibe-hacking non è un rischio futuristico: è già qui. Le operazioni documentate da Anthropic mostrano una preoccupante evoluzione del cybercrime, che grazie all’IA diventa più scalabile, sofisticato e invisibile. Affrontarlo richiede risposte multilivello: automatismi di sicurezza, monitoraggio umano, collaborazione tra comunità tecnologiche e autorità governative. Ma soprattutto una nuova forma di alfabetizzazione digitale è necessaria: imparare a decifrare non solo i contenuti, ma le emozioni artificiali che li avvolgono.
Perché se il prossimo attacco non ci ingannerà con una vulnerabilità zero-day, lo farà probabilmente con un sorriso sintetico.
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