Stefano Gazzella : 22 Novembre 2022 08:36
Autore: Stefano Gazzella
Chi è solito contestare – spesso con eccessi che sfociano in un vero e proprio surreale negazionismo – il diritto alla privacy soprattutto in relazione alle attività di sorveglianza condotte in ambito pubblico, fa ricorso ad una frase di stile secondo la quale se non si ha nulla da nascondere non si deve avere alcun problema ad essere sotto controllo.
In risposta si può sempre scomodare la nota frase di Snowden: “Arguing that you don’t care about the right to privacy because you have nothing to hide is no different than saying you don’t care about free speech because you have nothing to say.”, ma è possibile andare oltre e offrirsi al confront.
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«Il cyberbullismo è una delle minacce più insidiose e silenziose che colpiscono i nostri ragazzi. Non si tratta di semplici "bravate online", ma di veri e propri atti di violenza digitale, capaci di lasciare ferite profonde e spesso irreversibili nell’animo delle vittime. Non possiamo più permetterci di chiudere gli occhi».
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Magari, ragionando con argomentazioni a contrario, per cui invece è proprio chi non ha nulla da nascondere ad avere le migliori ragioni per temere le invasioni della propria privacy. E al contrario, chi ha molto da nascondere ben poco si cura della privacy e delle sue regole.
Infatti, chi ha qualcosa da nascondere tendenzialmente può fare ben poco affidamento al concetto di protezione dei dati personali che può regolamentare – e dunque: rendere lecito – gli accessi e non costituisce un impedimento tout court.
Il concetto di protezione del dato non comporta un diritto di tipo proprietario né tantomeno può garantire in modo assoluto che l’interessato possa non conferire alcun dato di sé. Prevede che l’impiego dei dati sia conforme a determinati principi e in sicurezza, tutelando proprio la lecita circolazione. Componente che contrasta con l’esigenza di chi invece vuole esclusivamente celare un segreto e dunque escluderne radicalmente ogni possibilità di circolazione.
Anche nell’approssimata declinazione del diritto a non rendere pubblico o accessibile un dato, la privacy poco giova a chi “ha qualcosa da nascondere” il quale svolge – in quanto interessato – un’autonoma valutazione dei rischi potendo lui soltanto prevedere gli impatti negativi che spesso sono celati nel movente della resistenza e del contrasto ad ogni possibilità di accesso ai propri segreti.
Insomma, sembra che se questa privacy fosse strutturata per difendere chi ha qualcosa da nascondere, sarebbe piuttosto imperfetta e disfunzionale. Chi invece non ha nulla da nascondere ha un’aspettativa ed un affidamento proprio sulla liceità dei trattamenti svolti sui propri dati e ha molto da temere, ad esempio, sugli effetti distorsivi o dannosi derivanti da attività sproporzionate e illecite.
Per concludere: anche i “puri di cuore” che non hanno nulla da nascondere subiscono impatti rilevanti di compressione dell’autonomia individuale per essere assoggettati ad una sorveglianza persistente ed invasiva. Spesso, in modo non percepito e indotto progressivamente.
Con tanto di applausi scroscianti che venerano gli entusiasmi del tecnocontrollo sregolato o le derive della mercificazione digitale. Fra le pieghe delle narrazioni distopiche che oramai seguono il suono di pifferai che hanno saputo spostare la sede della propria fiaba da Hamelin alla Silicon Valley. O direttamente, nel web o all’interno di qualche metaverso.
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