Stefano Gazzella : 9 Giugno 2023 07:12
Quando è stato segnalato il problema rappresentato da Bikinioff, abbiamo assistito a delle reazioni a dir poco sorprendenti. Da un lato infatti c’è stato chi ha voluto guardare al dito e non alla luna, accusando il fatto stesso di fare informazione sul bot. Secondo questa ricostruzione teorica, andare ad informare circa il problema, in modo documentato e indicando le fonti, avrebbe l’effetto di incuriosire e dunque di aumentarlo. Altri – beninteso, in maggioranza ma non in totalità uomini – hanno invece preferito sminuire l’accaduto, tacciare di censura o bigotteria, arrivando a dire che tanto con un programma di editing certe cose si possono fare comunque.
Come mai non c’è stata una percezione corretta del problema, tanto che ne parlano così pochi? Tranquilli, al primo intervento istituzionale fioriranno gli esperti che prudentemente prima avevano scelto di non esprimersi né prendere posizione, dunque attendere e vedere dove va la corrente per cavalcare un trend topic. Nulla di sorprendente nel mondo di internet e dei social e dei professionisti che lo frequentano. Ma sempre abbastanza desolante.
Che fine hanno fatto tutti gli intenti di educazione digitale che si predicano da decenni? Vogliamo credere alla favola della tech neutrality? O forse chi va a dire di predicare da tempo proprio l’educazione digitale ha solo avuto l’intento di farne uno slogan? Insomma: lo stato dell’arte è sotto gli occhi di tutti, ed è ben poco qualificante.
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Sostenere che è meglio non palare di certe cose contraddice il ruolo dell’informazione alla radice. Far comprendere la facilità d’impiego di un servizio come quello di Bikinioff è come – mutatis mutandis – rivelare l’esistenza di un nuovo malware o di una vulnerabilità. Certo, in questo caso la remediation dovrebbe essere una presa di coscienza che si è vista mancare forse per difetto di sensibilità al problema.
Sono stati segnalati infatti dei rischi di sicurezza, condizioni e policy d’uso tutt’altro che trasparenti, e una destinazione d’uso che comporta una violazione sistematica dei diritti. Diventa piuttosto difficile immaginare un nesso logico con lo sviluppo di una qualche curiosità o tentazione di impiego. Non viene neanche indicato chi sia titolare del sito o dei canali, che con alcune ricerche si scopre essere una società estone.
Insomma: l’unica evidenza è una correlazione fra l’atto di indicare che il re è nudo (anzi: che il re è fatto per spogliare senza consenso chiunque) e delle reazioni scomposte che avrebbero preferito il silenzio a riguardo. Viene da domandarsi se per dipendenza dall’ennesimo gadget tecnologico o chissà per quale altro motivo.
Il problema principale è infatti rappresentato dalla destinazione d’uso del bot la quale è idonea alla produzione seriale, diffusa e sistematica di violazioni su larga scala. Ora è possibile generare dei deepfake adesso anche secondo altre categorie: bikini, lingerie, swimsuit, sport, business. Non soltanto nude, ma se il servizio viene presentato come “AI nudification App” c’è poco da dire su quello che sarà, e anzi vuol essere, l’impiego principale. Il tutto sempre al costo di 1 credito per immagine (il pacchetto minimo è di 10 CR al costo di 5,5 euro). Crediti che possono essere acquistati direttamente sul canale bot principale o da parte di “dealer” all’interno di un marketplace dedicato.
Le opacità, come è possibile intuire, non mancano. Così come i pericoli.
Peccato però che si preferisca guardare altrove e tacere. O peggio: far tacere.
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